Con la Rosetta se ne va un pezzo di storia capitolina, ma sarebbe meglio dire italiana. 59 anni in quella viuzza vista Pantheon che per ironia della sorte si chiama come la pagnottella che qui in città non si trova quasi più.
Ora che è passato un po’ dalla chiusura, il tempo necessario per far fluire l’ondata emotiva, Massimo Riccioli si racconta un po’. L’amarezza non manca, e non potrebbe essere altrimenti. «C’è troppo lassismo e rassegnazione, non potevo più andare avanti: è una situazione sempre più complicata, e questa parte del centro è diventata una zona da evitare, affossata dal casino, piena di pizze di bassa qualità e Spritz. Qui pure i bar turistici senza cucina e senza cuoco ora si chiamano ristoranti… e sarebbe facile controllare volendo».
E poi la strada distrutta, l’impossibilità ad arrivare, la gestione della nettezza urbana: «da una parte il Pantheon dall’altra la monnezza fino alla mezzanotte». A quasi 72 anni – «anche se nessuno ci crede che ho questa età» – si ritira imbattuto, si sente in forma, ma si è stufato di tutta questa lotta, manca lo sprint necessario. «Una volta – dice – era piacevole».
Il periodo più interessante è stato intorno ai 2000, allora – racconta – ci sono state tante situazioni belle. Riccioli è ancora in detox: niente pesce per un po’, anche se gli arrivano ancora cassette di pescato, «mi sono imposto qualche mese di astinenza». Si dichiara neopensionato e accarezza l’idea di un mettere su carta una storia legata a un gruppo di persone a riposo. Da parte sua ci mette i ricordi, la nostalgia e pure la cazzimma: «Grazie a Massimo Riccioli non si dice mai, ma se ci pensi certe cose a Roma le ho portate io». Le ostriche per esempio: «era il ’98/’99 e qui conchiglie crude non si mangiavano, le avevano giusto un paio di posti ma non erano un granché. Io avevo amici francesi, e quando andavo da loro a Parigi, mangiavo ostriche buonissime». A Roma invece no: c’era stato il colera, una profonda crisi che aveva fatto piazza pulita. «Io uscivo dalla Rosetta, a fine servizio e non sapevo dove andare per mangiare una cosa buona. Allora ho detto: lo faccio io».
Riccioli Caffè è stato una rivoluzione: con quel grande bancone d’acciaio, il soffitto d’argento, «la gente era spiazzata, non entrava mica. All’inizio mi hanno fatto la guerra». Anche perché per l’epoca era all’avanguardia: crudi di pesce, drink. «al comune mi contestavano che ero un bar e facevo da mangiare, replicavo che era tutto crudo, freddo, già pronto, loro dicevano che per crudo si intende prosciutto o formaggio» e allora? «Ho fatto ricorso al Tar, poi sono andato al Consiglio di Stato. Sai che hanno detto? Ci hanno pensato e poi se ne sono usciti che non erano in grado di rispondere».
Riccioli Caffè continuava a inaugurare la stagione con una montagna di ostriche in una serata a inviti in cui passava tutto il bel mondo. In breve tempo era diventato il dopo-lavoro di giornalisti, politici e tanti volti famosi. Non era facile, però «era una tortura, sempre un sacco di problemi, alla fine mollammo. Adesso l’oyster bar sarebbe perfetto».
Nel frattempo, però, era entrato nelle abitudini di tanti. Non era difficile da immaginare, considerando il tipo di offerta e la garanzia del marchio Riccioli, a cui si deve la diffusione del pesce crudo in città: «Lo abbiamo iniziato a fare alla Rosetta nell’80, avevamo una spigola marinata con limone e arancia che era buonissima, poi c’è stato un servizio più ampio del crudo». Strilli di novità, li definisce, ribadendo il ruolo avuto in città in tutti questi anni.
Il bel mondo gli tributava il giusto merito, sin dai tempi in cui al timone c’era il padre; Mastroianni, Gassman, Sordi, De Filippo: «venivano tutti da noi, anche perché all’epoca non ce ne erano tanti di ristoranti di pesce». Il padre aveva origini siciliane, introdusse pesci che in città nessuno conosceva: «la nostra fortuna era l’ignoranza». Faceva una zuppa di pesce e delle cozze gratinate buonissime, racconta, «aveva una bella mano sui primi. Io sono il suo primo allievo, anche se ho sempre cercato di ampliare questo sapere della tradizione mettendoci del mio». Fa l’esempio della pasta con le sarde «Che alla fine senti degli elementi dolci, e ci devi lavorare su. Per me è il pesce azzurro più buono di tutti, saporita il doppio dell’alice: la fai alla griglia leggera leggera ed è molto raffinata, è buona anche cruda. Mentre mio padre la faceva al forno».
Del passaggio generazionale il ristorante non ha risentito, anzi, e ha continuato a essere la meta di nomi famosi, nostrani e internazionali: Harrison Ford, Leonardo Di Caprio. Woody Allen. I divi passavano di lì, come pure i politici: «Ricordo che il giorno in cui fu rapito Aldo Moro, poi sono venuti tutti a pranzo da me: Forlani, De Mita, tutti. Ero sorpreso anche io».
E dire che gli uomini di Stato erano di casa da lui: Craxi, Piccoli, Maroni, Cirino Pomicino, De Michelis: «Il suo era sempre un tavolo super, aveva un atteggiamento amichevole». Erano altri tempi: «All’epoca consumavano in modo più sfacciato». Gli indirizzi frequentati dai nomi di partito erano pochi: «C’erano Settimio, Fortunato, Baffone, un’osteria buonissima a piazza della Maddalena, andavano anche da Ciarla, magari la sera, allora Trastevere non era così sbragata come adesso, era divertente: si incontrava il mondo lì, era più del popolo, con più divertimenti».
Lui però, aveva un posto privilegiato, complice anche la vicinanza con i luoghi del potere. E ovviamente una cucina che sapeva parlare al cuore senza mai essere troppo cerebrale: «la sintesi del mio credo gastronomico è sempre stata cotture brevi – per non togliere l’anima, l’essenza del pesce – non bisque ma brodi leggeri con testa e spine per rinforzare il sapore del pesce». Lui faceva i piatti con quel che arrivava in cucina, «poi i nomi glieli dava qualcun altro». A un certo punto faceva uno spaghetto di farro: «la gente storceva il naso, era quasi sulla difensiva, lo avevo scelto perché assorbiva tanto i sapori».
Spingeva su un aglio olio e peperoncino, con vongole e calamaretti novelli che cuoceva appena 30/40 secondi, chiudeva appena con colatura, ricotta salata, fiori di zucca a finire: una bomba di sapori. «Un senatore è venuto per tre anni di seguito apposta per far assaggiare questa pasta ai suoi ospiti. La chiamava la pasta del cardinale, da democristiano che era. Chi era? Non lo dirò mai!».
A un certo punto è stato anche a Londra: «lì ho visto come dovrebbe funzionare un sistema, da noi non c’è volontà di sistemare le cose. È assurdo che in un Paese turistico come il nostro non si trovi personale, non si fa niente per migliorare». Per qualche anno poi si è innamorato dell’idea della tavola calda di mare e ha dato vita a Rosticcerì: un parco giochi per i golosi, con sughi appena preparati, fritti, cose che bisognava solo infilare in forno o impiattare, scaffali colmi di vini e di specialità varie. Perfetto persino se dovevi organizzare una cena di livello all’ultimo momento. Non era a buon mercato «con certi prodotti i prezzi sono quelli, non puoi andare mica sotto, però c’è un limite di pensiero a spendere certe cifre. Con questa cucina, però, non ti puoi permettere un pubblico incostante: il pesce non puoi lasciarlo lì come fosse un guanciale».
Per un po’ di anni ha funzionato, poi le cose sono andate in un’altra direzione: «Forse era troppo innovativo». Sempre stato in anticipo sui tempi, Riccioli, e anche adesso che ha deciso di chiudere bottega raccogliendo l’affetto di tanti – come Minoli, habitué del Riccioli Caffè, che è andato a trovarlo l’ultima sera de La Rosetta – macina idee e progetti, pronto a riprendere in mano mestoli e padelle, magari per cene private, eventi, consulenze. «Ma senza stress, stavolta».
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