In un Paese dove la cucina è spesso celebrata come trionfo di tradizione codificata, quella dei Gitanos spagnoli è rimasta ai margini: orale, mutevole, poco scritta e spesso relegata all’etichetta riduttiva di “cucina povera”. Eppure, in alcune città dell’Andalusia – soprattutto a Jerez de la Frontera – i sapori gitani sono ovunque. Nei mercati, nelle cucine condivise dei quartieri storici, dove ogni piatto è un racconto di adattamento e ingegno. Nelle voci di chi, oggi, sta cercando di salvare un patrimonio gastronomico che non è mai stato scritto, ma che ha attraversato secoli di esclusione, migrazione e mescolanza.
Dalla berza gitana, stufato identitario a base di cavolo, legumi e carne, alle versioni locali dell’arroz de Navidad, la cucina gitana è meno una collezione di ricette e più una grammatica dell’improvvisazione. Una grammatica appresa per necessità, trasmessa da madre a figlia, spesso con una canzone in sottofondo.
E oggi, mentre giovani cuochi e ricercatori ne riscoprono i codici profondi, la cucina dei Gitani inizia a reclamare il proprio spazio: non più solo tradizione orale, ma espressione culturale piena, autonoma e, finalmente, visibile.
La cucina gitana, a differenza di molte altre cucine regionali, non nasce da un territorio preciso, ma dal movimento. I Rom arrivarono nella Penisola Iberica oltre seicento anni fa, dopo una lunga migrazione dall’India nord-orientale, attraverso i Balcani e il Mediterraneo. Non portarono testi sacri né manuali di cucina: portarono il corpo, la voce, la memoria orale.
Questo nomadismo ha inciso profondamente sul modo in cui si cucina: niente codifiche scritte, ma gesti tramandati, ingredienti raccolti o scambiati lungo il cammino. Il risultato è una cucina che cambia forma a seconda del luogo e delle possibilità, capace di assorbire le tradizioni locali e restituirle in forma nuova. In Catalogna, per esempio, i Gitani hanno riletto l’escudella, in Albacete cucinano un riso natalizio con zafferano e tacchino. In Andalusia, invece, si cucina con quello che si ha: finocchio selvatico, ceci, cavolo nero, avanzi del macello.
Se c’è una città in cui la cultura gitana ha trovato una casa, è Jerez. La chiamavano “la città dei Gitanos” già agli inizi del Novecento, come scriveva García Lorca. Qui, in un contesto segnato da forti divisioni sociali – tra i ricchi bodegueros del vino e le classi lavoratrici – Gitanos e Payos (non-gitani) hanno condiviso cortili, cucine, giornate nei campi e nei mercati.
Questa vicinanza forzata ha generato contaminazioni culturali forti, in particolare nel flamenco e nella cucina. Nei cortijo, le masserie andaluse, nascono le prime forme di “cucina mista”: il riso dei Gitanos si incontra con la manteca colorá andalusa, gli avanzi di carne diventano pietanze comuni. Nei mercati, i Gitanos si specializzano in ciò che gli altri rifiutano: pesci “poveri”, interiora, trippa. Ancora oggi, gran parte dei banchi del pesce nel mercato centrale di Jerez è gestita da famiglie gitane.
La cucina gitana è fatta di voci e mani, di sapere tramandato senza misure né ricette scritte. Per molto tempo è rimasta fuori dai libri, custodita nei cortili condivisi, nei pranzi cucinati a più mani con quello che c’era. Rocío Jiménez Rodríguez, cuoca autodidatta di Jerez, ha capito che se non si canta mentre si cucina, il piatto non viene. Nei giorni di festa, racconta, abbandonava la pentola per ballare qualche passo di flamenco nel patio, “aspettando che a qualcuno venisse quel pellizco, la scossa che fa partire il canto, prima di correre in cucina a salvare i ceci”. È cresciuta con le mani nella berza, osservando sua madre e le zie mettere insieme quello che il giorno offriva: cavolo, legumi, carne grassa, erbe raccolte.
Durante la pandemia, Rocío ha iniziato a insegnare quella cucina a studenti da tutto il mondo, da Barcellona al Giappone. Non solo per far conoscere un sapore, ma per salvare una lingua che rischiava di sparire. Accanto a lei, altri autori e cuochi stanno contribuendo alla riscrittura di una memoria orale: dal libro La cocina gitana de Jerez di Manuel Valencia, fino alle raccolte pionieristiche come La cocina gitana de Matilde Amaya o La cuisine gitane di Esmeralda Romanez. Un’opera più recente, Cuisine gitane d’Andalousie et d’ailleurs, amplia lo sguardo anche ai contatti internazionali.
Oggi, una nuova generazione di chef gitani sta traducendo quel sapere in linguaggi contemporanei. A Jerez, Manuel Loreto ha trasformato la berza in un hot dog, Diego Santiago ha fuso la chistorra con l’uramaki giapponese, e Ángel Taboada ha creato un intero menu degustazione dedicato all’identità gitana, basato su ricerca antropologica e memoria familiare. Si tratta di operazioni tutt’altro che folkloristiche: il fine non è rivisitare, ma rivendicare. Dare dignità a una cucina nata ai margini, che per troppo tempo è stata raccontata solo come povera. E che invece ha saputo trasformare la scarsità in invenzione, l’esclusione in stile. Una cucina che oggi non solo resiste, ma si reinventa, senza perdere il ritmo del cuore.
La cucina gitana non ha bisogno di essere “salvata” da uno chef stellato, né deve essere piegata a logiche folkloristiche. Ha bisogno di spazi in cui essere raccontata da chi la vive, da chi l’ha cucinata per fame e ora la cucina per scelta. Nei laboratori gastronomici, nei progetti culturali, ma anche nelle case dove ancora oggi si canta mentre si gira il soffritto. Forse è proprio nella tensione tra l’oralità e la scrittura che la cucina gitana trova oggi un nuovo respiro. Mentre alcune mani continuano a cucinare “a occhio”, altre iniziano a scrivere, documentare, insegnare. Non per cristallizzare una tradizione, ma per permetterle di esistere anche fuori dai confini della memoria.
foto di Rocío Jiménez Rodríguez
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