Chi ha visto Doraemon la riconoscerà subito, nei fumetti e nella serie animata l’azzurro gatto robot divora questa merenda in quantità industriale, contribuendo a fissare questo dolce nell’immaginario collettivo dei bambini giapponesi (e non solo). Due piccoli pancake dorati che si abbracciano con al centro un ripieno denso: il dorayaki. Dai banconi delle pasticcerie di Tokyo alle cucine raccontate nel cinema giapponese, il dorayaki è diventato un simbolo popolare e la merenda dolce preferita dai giapponesi.
Il dorayaki non è nato così come lo conosciamo oggi. In origine era un semplice pancake singolo, cucinato su una superficie rotonda simile a un gong, da cui si pensa derivi il nome: dora in giapponese significa proprio gong e yaki significa cucinare, ed è utilizzato come un suffisso per indicare gli alimenti cotti su una piastra. Secondo una leggenda, un samurai di nome Benkei aveva dimenticato il proprio gong in casa di un contadino: da allora si usa una piastra rotonda per cuocere l’impasto creando la classica forma a dischetto. Ma la versione finale, a due dischi, nasce nel 1914 nella pasticceria di Tokyo Uneno Usagiya.
L’impasto del dorayaki è simile a quello della castella cake o kasutera, un tipo di pan di Spagna giapponese introdotto dai mercanti portoghesi nel XVI secolo. Gli ingredienti di base sono farina, uova, zucchero, miele, acqua o latte e un pizzico di lievito.
Dopo aver mescolato gli ingredienti fino a ottenere una pastella liscia e densa, l’impasto viene fatto riposare per circa mezz’ora. Si cuoce poi su una padella leggermente unta, formando dei dischetti dal diametro di circa 8–10 cm. Una volta comparse le prime bolle in superficie, si gira ogni disco e lo si cuoce brevemente sull’altro lato. I due dischi vengono infine farciti e sigillati insieme con l’anko al loro interno.
L’anko è una confettura dolce di fagioli rossi azuki, ed è l’elemento più distintivo del dorayaki. Esistono diverse varianti: la tsubuan, più rustica, mantiene i fagioli leggermente interi, mentre la koshian è una crema liscia ottenuta filtrando la purea di fagioli.
Nel film Le ricette della signora Toku (2015), diretto da Naomi Kawase, il dorayaki assume un significato profondo. La storia si concentra sulla relazione tra Sentaro, un uomo che gestisce una minuscola pasticceria, e Toku, un’anziana donna che gli insegna a preparare l’anko in modo artigianale. Attraverso questo dolce, i due personaggi imparano a conoscersi e a guarire le proprie ferite emotive. Nel film, la preparazione dell’anko è centrale e viene mostrata con grande cura. La protagonista spiega come la qualità del ripieno dipenda dalla pazienza e dall’amore nella sua preparazione.
Film, Le ricette della signora Toku (2015)
Per ottenere la crema perfetta, i fagioli rossi secchi vengono messi in ammollo per una notte intera. Il mattino successivo, vengono scolati e messi a bollire. È fondamentale cambiare l’acqua almeno tre volte durante la cottura iniziale per eliminare l’amaro naturale degli azuki. Successivamente, i fagioli vengono cotti lentamente per ore, fino a diventare morbidi, ma senza rompersi. Questo dettaglio è importante: i fagioli non devono sfaldarsi o spezzarsi, perché solo così mantengono la loro consistenza ideale. Solo verso la fine della cottura si aggiunge lo zucchero e un pizzico di sale. Si continua a mescolare fino a ottenere una pasta lucida e compatta, lasciata poi raffreddare prima di essere utilizzata.
In Giappone, il dorayaki si trova praticamente ovunque. È venduto nei kombini (minimarket aperti 24 ore), nelle pasticcerie tradizionali, nei distributori automatici e nei banchi di street food durante le feste locali.
Negli ultimi anni, molte caffetterie hanno reinterpretato il dorayaki in chiave moderna. Alcuni lo servono con farciture alternative come crema al tè matcha, cioccolato fondente, marmellata di yuzu, panna montata, castagne glassate, o anche con gelato. Si trovano versioni vegane, senza glutine o con farine speciali. In alcuni casi, vengono serviti aperti, con la farcitura visibile, e decorati come fossero piccoli dessert al piatto.
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