La piazzetta è soleggiata e deserta. A sopraffare il silenzio, solo il rumore della mia auto che arriva, si ferma, parcheggia. Lo sguardo va immediatamente in fondo a cercare qualcuno a cui chiedere informazioni, eppure in quell’area isolata – che non ha nessun avventore fuori dall’unico bar, nessun ammalato fuori dall’unica farmacia, e nessun cliente fuori dall’unica pizzeria – sbuca un ragazzo filiforme, riccioluto, con occhiali da sole all’ultima moda, le Birkenstock Boston ai piedi e una maglietta bianca a mani corte che regala già un sentore piacevole dell’estate. «Stai serena, puoi lasciare l’auto aperta con tutti i bagagli dentro, come vedi…», si gira attorno per mostrarmi il deserto umano, «qui siamo tutti tranquilli». Fra l’animo sollevato e il leggermente titubante, mi fido quando sento pronunciare quel numero: «Quaranta». È il totale degli abitanti di Presa, frazione di Piedimonte Etneo, piccolo borgo sull’Etna che raccoglie uno dei più grandi tesori del vulcano: l’acqua.
Marco Pilato racconta, a quel punto, che la scelta di avere un nuovo laboratorio di kombucha proprio in quel minuscolo angolo di mondo quasi dimenticato da Dio, sta proprio nell’acqua: «Qui sotto c’è una delle poche sorgenti dell’acqua dell’Etna e per fare la kombucha è importante avere una buona acqua», spiega. «E di che sa?», chiedo. E lui dice: «Assaggia» e indica l’unica fontanella in piazzetta da cui sgorga acqua perpetua: mi avvicino e l’assaggio. È minerale, corposa, piena. «L’acqua passa sottoterra ed è questo che ci dà vantaggio: abbiamo kombucha molto minerale, che ha corpo rispetto a kombuche fatte con altri tipi di acqua, noi non abbiamo bisogno di correggerla con sali minerali, ad esempio, come si fa solitamente in alcuni birrifici per la birra. Abbiamo avuto questa fortuna». Quando Marco Pilato parla di noi, si riferisce a lui e una sola altra persona, Leonor Corrales Retana, sua compagna nella vita e socia in affari in fatto di produzione di kombucha.
Marco e Leonor non hanno nemmeno 35 anni. Lui è siciliano di Caltanissetta, ingegnere che progettava macchine ospedaliere come tac e risonanze magnetiche. Lei è costaricana, tecnologa alimentare e agronoma. Si conoscono a Pisa durante gli studi, e oltre ai sentimenti, a unirli è stata la passione per le fermentazioni: «Fermentavamo di tutto. Durante il Covid c’era l’idea di fare qualcosa, già ci lavoravamo sulle fermentazioni aiutando un produttore di vino, e realizzando sidro, io ne sono un grande amatore», spiega Marco mentre ci accompagna nel suo laboratorio. Poi un giorno decidono di prendere la via della kombucha, e concentrarsi su un solo prodotto. Da Pisa si trasferiscono a Caltanissetta, città di origine di Marco, per capire come iniziare a muoversi, ma «è stato difficile perché non siamo riusciti a fare rete. Per puro caso, con un amico, siamo finiti in un’azienda agricola, che si chiama Bagol’Area e abbiamo conosciuto i titolari, Cinzia e Diego, e ci hanno dato fiducia dandoci uno spazio, e da lì è cominciato tutto seriamente», racconta Marco non appena varchiamo la soglia di quel luogo fresco e con poca luce che sta diventando il nuovo quartier generale di Selvaticalab.
«Annusa pure qua», invita Marco a infilare il naso in una sacca piena di foglie secche di fico. «E ora annusa queste altre». «Stesse foglie, ma sembrano avere un odore diverso, o sbaglio?», chiedo. «Esatto! Sempre foglie di fico, ma queste raccolte in estate e queste in inverno». Dopo l’acqua è la seconda fortuna della kombucha di Selvaticalab: «Oltre all’acqua, raccogliamo tutti i fiori e le erbe che usiamo per le fermentazioni». Lavanda, verbena, timo, hibiscus, persino ortica che è «molto ricca di tannini e polifenoli simili a tè verde, vorremmo sperimentare una kombucha solo di ortica», racconta Pilato che con Leonor ama anche passeggiare nella macchia boschiva di Bagol’Area (Mascali, in provincia di Catania) – dove hanno la prima sede produttiva che lasceranno a breve per spostarsi definitivamente a Presa – a cercare tutte le aromatiche per impreziosire la loro kombucha e unirla a quella selezione certosina di tè, che sono la base del loro prodotto. «Usiamo tè bianco del Malawi, abbiamo contatti diretti con il produttore, senza passare da distributori intermediari. Inoltre, usiamo anche un tè post fermentato, Pu’Er, e poi uno smoked, affumicato con legno».
Ma come si fa la kombucha, questo fermentato che sta conquistano gli amanti dei No/Lo? Selvaticalab usa «tecniche di vinificazione perché siamo vicini alle cantine: bâtonnage, sboccature, ad esempio. La kombucha viene imbottigliata liscia, senza bolla, dopodiché fa una seconda fermentazione in bottiglia», spiega Marco mentre stappa una bottiglia di Luisella che mi versa fresca in un calice. «Qui dentro cosa ci mettete», chiedo mentre assaggio. E lui, sorseggiando con orgoglio il suo prodotto, mi risponde: «La facciamo con un mix un blend di tè neri indiani e cinesi aromatizzati al bergamotto e aggiungiamo della verbena odorosa».
A quel punto, rinfresco il palato con dei sorsi, e immagino i piccoli chimici Marco e Leonor a sperimentare queste combo frizzanti e gli chiedo: «Ma come si fa in sostanza tutto questo?». Sorride, manda già un sorso di Luisella e mi spiega: «Nei vasi in vetro», che mi indica, «c’è la banca dati genetica delle nostre madri», in cui si intravede, immerso in un liquido giallastro, un disco: «Sarebbe lo scoby (Symbiotic Culture Of Bacteria and Yeasts), coltura simbiotica di batteri e lieviti responsabile della fermentazione. Sotto, nei bidoni bianchi, ci sono gli starter per iniziare le produzioni». I tè vengono «provati in tazza in infusione» e una volta appurate le sensazioni palatali, i due cominciano a fare delle piccole prove in vetro per vedere come si sviluppa la fermentazione. «Quando la fermentazione ci piace», si passa a contenitori intermedi per poi arrivare ai fermentatori finali. Seimila sono i litri che hanno prodotto l’anno scorso fra quattro tipologie di kombuche: Karkadè (tè nero di Assam aromatizzato con fiori di karkadè (hibiscus); Luisella; Flor (blend di tè nero Assam e tè verde Secha, con note floreali grazie all’aggiunta di peonia, mango, papaya e mirtilli); La Perla (tè bianco aromatizzato alla lavanda siciliana e fiori di pisello). «Quest’anno ce ne aspettiamo 12mila di litri», faccio una battuta mentre infilo il naso in una sacca di foglie; il ragazzo riccioluto alternativo tornato in terra madre sorride mentre mi dice: «Attenzione, quella è ortica!».
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