Storie imprenditoriali

L’altro tramezzino: storia romantica di un locale di Milano con anima veneziana

Da giovane donna innamorata di Venezia, alla declinazione della passione in un locale milanese di successo. Storia di Marta Matilde Favilli

  • 25 Settembre, 2025

Il giorno in cui è arrivata a Milano, Marta Matilde Favilli ha capito che Venezia non avrebbe mai smesso di mancarle. Quando nel 2018 ha deciso di rilevare l’attività del marito di sua madre, sapeva che non si sarebbe trattato solo di un passo verso la costruzione di un business e della sua figura imprenditoriale, ma soprattutto un salto nel passato, a ripercorrere le origini e le tradizioni della laguna. Per realizzarlo, serviva oltrepassare strati fittissimi di memoria, tornare a quando era bambina, ai momenti di felicità nell’isola a spasso coi nonni per le calli di Venezia. Alle possibilità di carriera nel mondo della moda e della comunicazione, ha preferito un nuovo ordine personale nella ristorazione: se per circostanze lavorative e di vita non le era possibile tornare a Venezia, l’unica soluzione era portare Venezia da lei.

Alle origini di L’altro tramezzino

«All’inizio è stata dura: la ristorazione era un mondo che non conoscevo, cannibale e pieno di pregiudizi, ma conoscevo bene il prodotto, la sua origine, i motivi per cui era nato, quando e dove», racconta, «Girovagavo per Milano con pacchi di volantini nello zaino, biglietti da visita e assaggi. Suonavo i campanelli di aziende e uffici. Telefonavo, proponevo collaborazioni, presentavo le mie idee di catering. Il termine tramezzo indica lo stare in mezzo fra colazione e pranzo. Mi hanno sempre affascinato i pasti economici e veloci – non li definirei poveri, ma piuttosto semplici –, tipici dell’ecosistema di una metropoli che non dà il tempo di fermarsi. A Venezia, quando ero piccola, il tramezzino era la colazione, lo spuntino, il pranzo di operai, di avvocati, gondolieri, turisti, chiunque. Si mangiava camminando, fermi al sole, su un gradino. Era un momento di condivisione informale, accessibile a tutti».

L’altro tramezzino: la storia

«Quando ho rilevato il locale, inizialmente situato in zona Duomo, ho pensato subito a tre cose: l’affitto costava troppo, l’ambiente era posh e senza identità, e non esistevano rapporti umani e continui coi clienti perché quasi tutti turisti. Ho cercato un ambiente più adatto alla filosofia che inseguivo, fondata sull’essenziale, e trovandolo in Porta Romana, più precisamente in via Mantova 13. Essendo per cultura il tramezzino un cibo street e pop, ho deciso di mantenere l’estetica del locale così com’era: pareti senza intonaco, quasi da cantiere; tavoli minimalisti e che richiamassero i bar della stazione di Venezia; un’ampia vetrata che illuminasse tutto», racconta la ragazza classe ‘91 dal suo ufficio colmo di scartoffie, preventivi, libri di narrativa e lattine d’acqua lasciate a metà.

«L’aspetto a cui tengo di più è il rapporto instaurato non solo con i clienti, ma soprattutto con i vicini di casa. Ho sempre creduto che un lavoro in sinergia con le realtà imprenditoriali qui accanto potesse influenzare positivamente la riuscita di ogni progetto. Il pane che usiamo, per esempio, lo producono a cento metri da qui. E anche i formaggi e molti altri prodotti. Noi contiamo su di loro e loro contano su di noi».

La filosofia dietro L’altro raccoglie frammenti e ricordi adolescenziali, pezzi di vita in una Venezia frenetica: un tramezzino a metà giornata, in condivisione con un’amica; un pasto da consumare in treno; una colazione salata prima di cominciare le lezioni all’università. Questo patrimonio memoriale ha dato vita al format milanese che conosciamo. Oggi, come molti anni fa: «Ho questi ricordi di ragazzina innamorata di Venezia, delle sue calli, campielli, osterie, bàcari, luoghi di fusione culturale dove il cibo, e senza dubbio il tramezzino, smette di essere mero elemento funzionale, diventando anche simbolo di un momento di stacco e godimento. Un pasto prezioso perché economico e veloce, adatto a tutti».

Milano: la città per L’altro tramezzino

Ma com‘è possibile ricreare un luogo dove questo momento, questo balzo nel passato torni reale? «Aprire un locale non basta. Ho scelto Milano perché è un ecosistema vivo, sorprendente e sempre in movimento. La scelta dei prodotti varia a seconda della stagione, ed è stata fondamentale la ricerca ostinata alle vecchie ricette e lo studio dell’origine del prodotto e dei metodi tradizionali».

Apprendere per poter poi stravolgere con consapevolezza: il tramezzino uovo e acciuga, per esempio, è un palese richiamo a uno dei cicchetti storici veneziani, ovvero mezzo uovo con un’acciuga poggiata sopra. «A un certo punto ho avuto la sensazione che Milano ci chiedesse qualcos’altro. Ci eravamo appena perfezionati su un prodotto, ma sentivo che la richiesta di ampliamento era obbligatoria per non stanziarci. Abbiamo cominciato a lavorare su altri snack veloci, che avessero la stessa filosofia del tramezzino, come il toast. E poi ci siamo spinti più in là con piatti freddi, vellutate, pane e olio».

La soddisfazione più grande «è arrivata quando ho compreso che la commistione fra background culturali e visioni di vita diverse rappresentava il laboratorio migliore: tutti i miei collaboratori, come spesso accade nelle aziende, vengono da percorsi differenti, e a me piace interpellarli soprattutto per scelte che non competono loro. Capire il punto di vista puro, non inquinato  dall’esperienza lavorativa in quell’ambito. I risultati e le idee che escono accerchiandomi di gente che ragiona agli antipodi, con storie e pensieri opposti, sono risultati e idee migliori. Quello che di buono in un progetto mi sfugge, può non sfuggire a qualcun altro. Quella che per me è una buona idea, può non esserlo per qualcun altro, e questo è molto importante perché fornisce degli occhi in più e una percezione dell’insieme si amplia».

«Io credo che la gente si sia stancata di ascoltare, vedere, assaggiare una ristorazione senza identità. Se offro qualcosa, quel qualcosa deve avere un senso profondo per me che vada al di là di un’offerta commerciale. L’anima di un posto, che sia un locale o un momento di condivisone su una panchina del parco, è sempre più rara. L’oste fa un’offerta, il customer guarda il prezzo, si decide se avviare la compravendita e poi si riprende la marcia verso il lavoro e la propria vita. Tutto scorre veloce e rimandiamo sempre a domani quello che ieri avevamo deciso di fare oggi. A volte, mi piace fermarmi e ripensare a quando ero bambina, davanti alla vetrina dei tramezzini di qualche bàcaro, indecisa su quale scegliere. Pronta a passare dieci, quindici minuti di vita con i nonni, con gli amici, coi colleghi o da sola».

 

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