
Non chiamatelo solo sale aromatizzato. La pestèda grosina, miscela profumata e pungente che arriva dalle Alpi valtellinesi, è un condimento che conserva secoli di storia, memoria e botanica. Nata a Grosio – provincia di Sondrio – dove ancora oggi viene prodotta secondo rituali familiari e segreti tramandati, si colloca nella grande tradizione europea delle salse secche, un’idea di condimento che profuma di malga e di tempo sospeso.
Composta da pepe nero in grani, aglio, sale grosso, bacche di ginepro e soprattutto da erbe di montagna come l’achillea moscata (nota anche come erba iva) e il peverel (conosciuto anche come timo selvatico o timo serpillo), la pestèda è una polvere grossolana e intensissima, capace di raccontare in un solo gesto culinario l’altitudine e la biodiversità dei prati valtellinesi. Secondo alcune fonti, la pestèda grosina ha origini che risalgono al XVII secolo, periodo in cui il comune di Grosio aveva rapporti stretti con la Repubblica di Venezia. La leggenda vuole che ai tempi della Serenissima, alcuni artigiani grosini operanti a Venezia vennero premiati dal doge, per i loro eccellenti servigi, con una nave carica di spezie tra cui il pepe, uno degli ingredienti base del condimento.
La pestèda non è sola. In giro per l’Europa esistono altri mix secchi capaci di concentrare identità territoriali in una manciata di profumi. In Provenza, il sel aromatisé combina sale marino e erbe locali come timo, maggiorana e lavanda, usato per carni, pesci e verdure arrosto. In Spagna, la picada catalana ha una versione “secca” che unisce mandorle, aglio e pane pestati, spesso con paprika o frutta secca, spolverata su stufati e ortaggi. Più a nord, in Svezia, il gravsalt è il sale speziato che accompagna il gravlax: una miscela di sale, zucchero, pepe, aneto e limone che condisce (e conserva) il salmone crudo.
Per consistenza e funzione, la pestèda potrebbe anche ricordare un gomasio orientale o certi dukkah nordafricani: preparazioni secche e profumate che si usano come tocco finale, sempre a crudo, per elevare il sapore di un piatto.
Per prepararla, si parte da pepe nero in grani (circa 120 grammi) e sale grosso (60 grammi), da pestare insieme fino a ottenere una consistenza fine, ma non troppo polverosa. Si tritano poi circa 20 spicchi d’aglio fresco, privato del germoglio interno, e si schiacciano una ventina di bacche di ginepro. A parte, si sbriciolano le erbe secche: achillea moscata e timo serpillo (peverel), nella quantità di un cucchiaio circa per tipo.
Tutti gli ingredienti si mescolano e poi vanno fatti asciugare, stesi all’aria, per poi essere trasferiti in barattoli di vetro. C’è chi aggiunge qualche goccia di vino o grappa per mantenere la pestèda leggermente umida. Ogni famiglia ha la sua ricetta e spesso anche qualche ingrediente in più o in meno. Dopo un paio di giorni di riposo in un luogo fresco e asciutto, è pronta da usare.
Nel repertorio tradizionale accompagna i pizzoccheri, le patate lesse, le manfrigole (particolari crepes arrotolate con formaggio fuso) e le carni grigliate. Ma è nei piatti contemporanei che rivela una versatilità sorprendente.
Uova e formaggi freschi: sulla burrata o su uova all’occhio di bue per una spinta aromatica insolita.
Carni bianche e pesci grassi: prova a spolverarla su una trota salmonata al forno, o su una faraona arrosto.
Zuppe cremose e vellutate: perfetta su una vellutata di zucca o di castagne, per rompere la dolcezza e aggiungere profondità.
Verdure alla brace o al vapore: dall’indivia grigliata al cavolfiore al vapore, con un filo d’olio.
A Grosio la “Confraternita Amici della Pestèda” organizza ancora concorsi, incontri, piccole fiere: non solo folklore, ma atti di resistenza culturale. Perché dietro una preparazione come questa c’è l’idea di una cucina che non ha bisogno di rivoluzioni. Una cucina che si affida a ciò che cresce spontaneo vicino ai pascoli, ma sa farsi spazio anche nelle tavole urbane.
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