C’è un albergo, sulla costa mediterranea a pochi chilometri da Barcellona, che può vantarsi di avere dato lavoro come lavapiatti all’uomo che ha cambiato la storia recente della cucina mondiale. Il paese costiero si chiama Castelldefels. Ha cinque chilometri di spiaggia. Sabbia fine. A parte un castello e qualche bella torre di guardia cinquecentesca, non è tanto diverso da Rimini o Riccione. L’albergo è il Playafels, linee moderne uguali a tante altre, piscina, clientela affezionata, prezzi sostenuti ma non folli. Con 200 o 230 euro per la camera doppia, chiunque può togliersi la curiosità di passare una notte nell’hotel divenuto celebre grazie a un giovane dipendente molto particolare. Il lavapiatti diciottenne (ora ex lavapiatti, molto ex) si chiama Ferran Adrià, proprio lui, il cuoco che ha cambiato i connotati della cucina contemporanea. È obbligatorio cominciare da Adrià, se vogliamo capire qualcosa dello tsunami che ha sconvolto la cucina mondiale dagli anni Ottanta in poi. Lo hanno esaltato e stroncato, lo hanno paragonato a Dalì e a Picasso, a Chet Baker e a Frank Zappa, ai fratelli Lumière e a Maradona. Qualcuno lo considera il cuoco più importante della storia, altri lo liquidano come un estroso chimico che ha fatto deragliare pericolosamente la gastronomia internazionale. Un genio? Una sventura? Comunque stiamo parlando di un protagonista assoluto, al punto che nella cucina contemporanea c’è un prima e un dopo Adrià. Si può discutere di qualsiasi cosa, ma non di questo.
Per capire come tutto sia cambiato negli ultimi quarant’anni, dobbiamo prima di tutto guardare quello che è accaduto ad Adrià a partire dal 1983, anno in cui il ventunenne cuoco catalano entra nello staff di El Bulli, un ristorante non particolarmente noto su una spiaggetta di Roses, Costa Brava. In diciotto mesi il giovane diventa chef di El Bulli e, a quel punto, comincia una storia travolgente, fatta di tre stelle Michelin, di ripetuti primi posti nella più prestigiosa classifica mondiale dei ristoranti (la Best 50, dove El Bulli trionfa dal 2006 al 2009). Esplode la sua notorietà internazionale, anche grazie a centinaia di conferenze che, come una rockstar, il cuoco catalano tiene in ogni angolo del mondo sulla sua cucina, sempre più intesa come arte, filosofia, spirito innovatore e libertario. “Le Monde” definisce Adrià «l’alchimista che rivoluziona l’arte culinaria», “Time” lo inserisce nell’elenco delle cento persone più influenti del mondo. Il “Times” spiega che «descrivere El Bulli come un ristorante è come definire Shakespeare uno scrittore», perché Adrià è un innovatore che ha ripensato e sconvolto il senso stesso del suo lavoro di cuoco creando un nuovo linguaggio della gastronomia. Dilagano i servizi e i reportage sulla «cucina molecolare» o «tecnoemozionale», quella nuova Bibbia alimentare che Adrià preferiva chiamare «nuova nouvelle cuisine».
Tanti cominciano a seguire in modo maniacale ciò che accade nella pirotecnica cucina di quel ristorante sulla spiaggetta di Montjoi. In Italia, qualche importante casa vinicola e alcuni grandi importatori di cibi pregiati chiamano a raccolta chef famosi e organizzano pellegrinaggi verso la nuova Mecca della cucina, magari per portare a casa qualche vasetto delle meraviglie, frutto della ricerca di Ferran e del fratello Albert, quelle texturas divenute rapidamente celeberrime tra gli addetti ai lavori. Una delle spedizioni più famose fu guidata da Stefano Bonilli, il grande critico gastronomico che fondò il “Gambero Rosso”. Con lui c’erano Mauro Uliassi, Moreno Cedroni, Paolo Teverini e altri bei nomi della cucina italiana. Molti di loro rimasero estasiati, a lungo sconvolti da tecniche e risultati che non si potevano nemmeno immaginare. Sferificazioni, schiume, gelatine, uso impensabile dei sifoni, dei liofilizzatori, dell’azoto liquido, di fermentazioni, gelificanti, composti chimici dai nomi mai sentiti. E un continuo gioco di contrasti, di temperature, di colori, di sapori. Nulla è mai come appare. La seppia può sostituire la pasta all’uovo, una zuppa di piselli può variare temperatura mentre la si assaggia.
Il sifone è rimasto un simbolo di quella impetuosa tempesta innovativa. I cuochi italiani lo usavano, quando lo usavano, per tenere sempre pronta la panna montata con cui venivano guarniti alcuni dessert. Si scopriva, invece, che dal sifone potevano uscire purè e mousse di pomodoro, di cavolfiore, di bietole, o zuppe e creme di consistenze mai assaggiate prima. E poi quei cocktail cremosi che parevano veri e propri piatti, quei carpacci di verdure o di funghi che nessuno aveva mai immaginato, quelle destrutturazioni che restituivano, in sorprendenti versioni, piatti tradizionali come la tortilla spagnola, il pollo, il riso. E i gelati sapidi, la cucina salata sottozero di cui Adrià andava fiero. Con la sferificazione, grazie a un procedimento chimico, si cominciò a ottenere “caviali” di ogni genere, dolci e salati, perle e perline che continuiamo a trovare nei ristoranti di mezzo mondo, in versioni non sempre piacevoli e azzeccate. Lo strumento diventa fondamentale almeno quanto l’ingrediente, se non di più.
Stefano Bonilli con Ferran Adrià
Ma c’è un altro oggetto simbolo di quella incontenibile ondata innovativa: le pinze. Le usavano in tanti, ma in altri mestieri. La loro funzione ricorda, almeno in parte, quella delle bacchette nelle preparazioni orientali. Nella cucina di El Bulli tutti avevano e usavano le pinze, un simbolo di precisione e di accuratezza. Oggi sono pochissimi i cuochi che ne fanno a meno.
Quella cucina mai vista e mai assaggiata nasceva sempre di più in laboratorio, col supporto di chimici esperti. Nel 1994 nacque il primo team creativo di El Bulli. La ricerca di idee, tecniche e piatti diventava uno snodo fondamentale della ristorazione, fino alla nascita di ElBullitaller, una sorta di intelligenza artificiale della cucina di Adrià, un organizzatissimo laboratorio della creatività disciplinata, successivamente copiato da ristoranti di fama mondiale.
A Harvard, dove fu invitato a tenere due corsi semestrali di fisica culinaria e di cucina contemporanea d’avanguardia diede spettacolo. Centinaia di studenti ascoltarono le sue riflessioni e le sue provocazioni su tutto: cucina ovviamente, ma anche arte, letteratura, economia. Adrià raccontò il suo lavoro come arte concettuale, i suoi menù come viaggi sensoriali, giocando con concetti, citazioni, paradossi. Tante sue frasi restano famose: «Se si pensa bene si cucina bene», «Riuscite a immaginare la gente che mangia un dipinto? Introdurre un dipinto nel corpo delle persone è probabilmente il sogno dell’artista, e noi abbiamo la possibilità di farlo». E poi la sua ricorrente riflessione su quella sorta di nuova democrazia che il cuoco dovrebbe coltivare, dedicando le sue ricerche e le sue attenzioni non al caviale, alle aragoste o al tartufo, ma alla qualità del latte, del sale, delle uova che sono i pilastri veri di ogni buona cucina.
Certo, l’ampia metodologia di Adrià richiama anche la cottura sottovuoto a bassa temperatura, ma questa tecnica aveva già una storia ampiamente avviata, con una conseguente scia di contrapposizioni e di polemiche. Scia inevitabile, soprattutto dalle nostre parti, quando si parla di cucina e di qualsiasi argomento che la riguarda, dalle origini della carbonara all’uso dell’aglio in questo o quel piatto. Così, per esempio, per Massimo Bottura il sottovuoto è un’arma preziosa e non a caso il Bollito non bollito è uno dei suoi più celebrati piatti storici. Ma guai a parlarne con Gianfranco Vissani che, da sempre, ha una sua convinzione: preparare il bollito misto a bassa temperatura è un errore madornale: «Tutto ha lo stesso sapore, tutto è insapore».
Oggi El Bulli non è più un ristorante. Uno dei suoi ultimi piatti è quasi un emblema di quell’epilogo. Si chiama Spuma de humo, spuma di fumo. Un concentrato di provocazione e autoironia. Che cosa può inventare un cuoco tante volte accusato di vendere fumo? Le accuse e le critiche ad Adrià e alla sua cucina non sono mai mancate. In Spagna, dove l’invidia alimentava i livori, ma anche in Italia. Ricordiamo in tanti la violenta campagna televisiva che Striscia la notizia mise in campo molti anni fa. Nel mirino c’era Massimo Bottura, ma soprattutto la cucina molecolare di Adrià e l’uso della chimica nella preparazione dei piatti. Volarono illazioni, calunnie, accuse infondate. Poi tutto tacque, perché dalle nostre parti tutto si metabolizza, tutto è indimenticabile ma viene dimenticato, serenamente e molto in fretta.
El Bulli ha chiuso nel 2011, ultimo servizio il 30 luglio. Adrià era lì da 28 anni. Il ristorante è diventato un mausoleo, un monumento a se stesso, unico caso al mondo. Restano le 1846 ricette, le tremila fotografie, le ottomila pagine, i sei libri e sei cd in cui Adrià ha messo in ordine il catalogo generale della sua opera, ovvero della sua vita.
Prima di lui c’erano solo il carisma e lo strapotere della scuola francese, da Escoffier alla nouvelle cuisine. Oggi c’è invece una cucina disorientata e inquieta, locale e mondiale, in cerca di connotati forti, per ora imprecisi, difficili da intravedere. Nessuno sa ancora quale sia il futuro, nessuno sa dove guardare. Di certo non sarà una replica di quanto abbiamo vissuto e amato nel nostro passato più o meno recente.
Ma di Adrià resta una grande lezione di libertà. Coraggio, mente aperta, nessun pregiudizio. La creatività può avere regole ma non può avere vincoli. «Creatività è non copiare», diceva Adrià. Pablo Picasso la pensava diversamente: «Il genio copia, il mediocre imita». È proprio questo che ci deve preoccupare, soprattutto alla luce di quello che è accaduto negli ultimi anni e continua ad accadere. Non c’è motivo di avere paura delle idee di Ferran Adrià, ma fanno paura le loro conseguenze.
Fanno paura i guasti provocati da legioni di mediocri e superficiali imitatori che, con un sifone sempre pronto all’uso, stanno trasformando la buona cucina in una stupida e incresciosa parodia di se stessa. Senza cultura, senza ricerca e, soprattutto, senza gusto.
A cura di Mauro Bassini
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