Storie

La vera storia della piadina e degli ultimi tegliai che lavorano in Romagna

A Montetiffi, tra calanchi e argille, Rosella Reali e Maurizio Camilletti custodiscono l’arte antica di fare le teglie per piadina: un mestiere che resiste al tempo, tra fuoco, terra e memoria

  • 10 Ottobre, 2025

Per fare una piadina ci vuole una teglia, per fare una teglia ci vuole l’argilla, e occhi che sappiano dove andare a raccoglierla e mani che sappiano come modellarla al tornio e cuocerla. Il fatto è che di tegliai, artigiani che sappiano raccogliere le terre giuste dalle colline e dai calanchi romagnoli, mischiarle, dare loro forma e trasformarle in “testi”, ne rimangono solo due, marito e moglie: Maurizio Camilletti e Rosella Reali. Il loro è un lavoro antico e decisamente in via di estinzione, anche oggi che la piadina tutti la conoscono (dal 2014 per venderla come “romagnola” occorre aderire al Consorzio che ne tutela il marchio Igp, il quale e oggi conta 12 soci, soprattutto aziende artigianali e industriali, a fronte di una marea di chioschi che invece non aderiscono ma continuano a produrla anche… senza aggettivo), tutti la vogliono e la mangiano, ma rarissimamente la cucinano.

Tegliai per scelta

Rosella e Maurizio, gli ultimi tegliai della Romagna, di testi ne sfornano ancora circa 1500 all’anno che finiscono nelle case di chi non si rassegna alla piadina in busta del supermercato. Fino a poco tempo fa li usava anche un chiosco di Cesena ma ora non più; ne fanno uso in alcune occasioni speciali e le rivendono ai loro clienti, anche a La Sangiovesa di Santarcangelo, osteria della tradizione dove da 34 anni lo chef Massimiliano Mussoni e il suo staff di piadaiole, impastano la piadina con la farina dei grani della Val Marecchia e lo strutto dei maiali allevati allo brado nell’azienda agricola Tenuta Saiano, la stendono al mattarello e la cuociono ogni giorno a ciclo continuo per portarla calda sulla tavola dei commensali. Niente pane, solo piadina.


Proprio da Santarcagelo dove abitavamo, e dove lavorano rispettivamente come impiegato in un sindacato agricolo e in un supermercato, si sono mossi Maurizio e Rosella. Hanno risalito l’argillosa valle del torrente Uso fino a Montetiffi, che è sempre stato noto come il paese dei tegliai. «Era il 1998, sapevo di un cugino di mia madre che costruiva le teglie, era rimasto solo lui – racconta Rosella -. Ci ha insegnato tutto: dove prendere le terre, come plasmarle e cuocerle. Ci ha tenuto le mani e noi abbiamo deciso di smettere di correre su e giù per la via Emilia e ci siamo trasferiti lì per diventare tegliai».


Marito e moglie si sono divisi i compiti: Maurizio va a cercare le argille e la calcite da impastare, raccoglie la legna per il forno in cui cuocere le teglie. Rosella mantiene il compito più meditativo: sta al tornio e le modella poi le mette sulle assi di legno ad asciugare per almeno due mesi, dove le gira ogni giorno, affinché perdano tutta l’umidità prima di essere cotte per una giornata intera nel forno a legna a temperatura crescente fino ad arrivare a 700 gradi. Una volta cotte, le teglie restano a raffreddarsi dentro il forno stesso e quando vengono tirate fiori vengono battute per vedere se «cantano come la campana di Montetiffi». Se lo fanno, sono riuscite bene.
Perché una teglia nasca e sia pronta da mettere sul fuoco o sul fornello di una cucina, servono dunque almeno tre mesi di lavoro. «Produciamo a mandate di 150/170 teglie alla volta – spiega Rosella – le vendiamo alle fiere e ai mercati, poi abbiamo i nostri rivenditori, come La Sangiovesa che ci aiuta a tenere vivo questo uso. Vorremmo tramandare quello che sappiamo, a volte qualcuno viene da noi a imparare ma poi restiamo sempre solo noi. Abbiamo chiesto al Comune di aiutarci a far sì che questo mestiere non si perda».

La vera storia della piadina, o piada che dir si voglia

Alla teglia si lega dunque il sapore della “vera piadina”, simbolo della Romagna, anche se, come dice lo storico e scrittore riminese Piero Meldini su di essa ormai ne sono state dette di tutti i colori, e spesso sono solo congetture, invenzioni o narrazioni posticce «frutto solo del copincolla». Per mettere un po’ di ordine lo scrittore e studioso del cibo ha pubblicato nei mesi scorsi insieme allo storico Oreste Delucca “Piade e piadine. Sette secoli di storia”, un centinaio di pagine in cui, forti delle fonti storiche, smontano campanilismi, falsi miti e romagnolismi da cartolina. Lo stesso editore Panozzo, romagnolo anche lui, aveva già in catalogo almeno altri due libri sull’argomento: “Buono come… la piadina di Romagna” pubblicato nel 1998, e l’enciclopedia di oltre 400 pagine di Graziano Pozzetto “La piadina tradizionale” pubblicata nel 2005, che iniziava proprio con un saggio storico di Piero Meldini.

«La prima citazione di un cibo definito piada è del 1371, si trova nella “Descriptio romandiole”, un censimento a fini fiscali voluto dal papa che inviò suo fratello, il cardinale Anglico, a visitare la Romagna per vedere quanto fosse possibile tassarla in base al numero degli abitanti e alle condizioni delle diverse comunità. Il denaro non circolava, allora le tasse erano in natura. Arrivato a Modigliana, il cardinale fece un elenco delle imposte da versare: tanto in grano, polli, capponi, vino, una libbra di pepe, e “due piade”. Si capisce anche da qui che non potevano essere le nostre piadine di oggi, ma qualcosa a cui si dava il nome di piada, probabilmente una grande focaccia, forse farcita. Infatti la piadina come la intendiamo noi è una cosa recente, novecentesca».

Racconta lo stesso Meldini: «La piadina, o piada è ininfluente si usano entrambi i termini nelle fonti, aveva poi scarsissimo peso nell’alimentazione dei romagnoli, era un surrogato del pane, che si infornava una sola volta a settimana. Alla piadina si ricorreva quindi tra un’infornata e l’altra o in periodi di carestia, quando era difficile se non impossibile trovare grano per panificare e si faceva allora la piada usando farine di cereali inferiori come miglio, spelta, tanta crusca, fave, fagioli, castagne, anche ghiande». Tutto il resto è storia recente e peraltro secondo Meldini non coinvolge allo stesso modo nemmeno tutta la Romagna, fino agli anni Settanta, afferma, più in là di Cesenatico di piadina pare non si si sentisse praticamente parlare.

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