Salvarono il lievito madre da un grande incendio. La storia di coraggio delle donne della Bauli

27 Feb 2024, 15:43 | a cura di
Donne operaie, ma anche ingegnere, cape reparto: se la Bauli oggi sforna tonnellate di colombe e pandori è grazie a loro, che misero in salvo il lievito

Una zaffata acidula spazza via il profumo di vaniglia, l’ambiente ovattato attutisce ogni rumore. È la culla del lievito madre, lo stesso dal 1922. Riposa nella sua stanza coperto da panni di lino, mentre la tecnologa ne misura l’acidità. Intanto, Elisabetta Cisorio guida il tour alla scoperta della fabbrica che ha dato lavoro a tantissime donne, che di ruoli qui ne ricoprono diversi. A cominciare da lei, che gestisce le problematiche dei clienti internazionali al reparto assicurazione qualità.

La fabbrica che permise alle donne di lavorare

Un tempo era l’unica azienda della zona (Castel d’Azzano, provincia di Verona) a offrire dei turni flessibili, per le donne dell’epoca era l’unico modo per entrare nel mondo del lavoro continuando a badare alla famiglia. Elisabetta ci è arrivata per caso e con poche intenzioni di rimanere in quella che oggi definisce la sua seconda casa. Era il 1987, «stavo preparando gli esami di abilitazione all’insegnamento quando una conoscente mi parlò della Bauli. Serviva qualcuno che sanificasse le macchine del pandoro per prepararsi alla Pasqua».

Un grembiule, un paio di stivali di gomma e l’inizio di una dolcissima avventura. Elisabetta in produzione ci è cresciuta, anche se ora lavora in ufficio, e in produzione torna sempre, alle macchine dà dei nomi buffi «Qui Quo e Qua», il primo dolce fatto è stato il pandoro, «nuvole e nuvole di zucchero». I piedi restano ben piantati in terra ma la mente la lascia libera di fantasticare, rendendo la più semplice delle azioni un racconto da fiaba, con lo sguardo sempre attento ai dettagli da migliorare, i sistemi da innovare. Pragmatica, romantica Elisabetta.

La memoria storica di Bauli

Di non aver insegnato storia dell’arte non si è mai pentita, nel frattempo ha conseguito un master europeo per la gestione aziende agroalimentari, il lavoro le ha permesso di instaurare legami forti: «Con le colleghe ci scambiavamo i turni, c’era sempre qualcuna pronta a tenderti la mano». La prima a stringerla è stata Gabriella Negri, «all’ufficio del personale, una forza della natura», poi ci sono state Susanna, Mariangela, donne che l’hanno formata e che Elisabetta chiama solo per nome, proprio come faceva Alberto Bauli, il figlio del fondatore Ruggero: «Il cognome ti dà un nucleo di appartenenza, il nome rappresenta te».

Era un padrone di casa attento, l’ex presidente (ruolo oggi ricoperto da Michele Bauli), che non mancava mai di affacciarsi in fabbrica per chiedere come andassero le cose. Un fiume di ricordi, alcuni tutti da ridere: «Prima le porte erano bloccate dai bottoni, un giorno sento qualcuno che continua a tirare e tirare senza riuscire ad aprirla. Urlo “allora, ce la facciamo a no?”, poi mi giro ed era il dottor Alberto. Le mie colleghe ancora ridono». Dai momenti di svago, però, emergevano anche spunti per il lavoro, «mi sono sentita coinvolta dal principio».

L'incendio del 1996

È per questo che quel 9 ottobre del 1996 non lo dimenticherà mai. Dopo il turno di notte aveva accompagnato i bambini a scuola, prima di risposare. «Mio marito mi ha svegliata dicendo “hai perso il lavoro”. Dal balcone potevo vedere l’azienda, mi sono affacciata e ho visto il fumo, le fiamme altissime…». La commozione è la stessa di allora. Gli occhi si velano, la voce si spezza: «Sono corsa lì, non potevo starmene con le mani in mano». Un gesto istintivo che le ha permesso di assistere a uno dei momenti che hanno fatto la storia dell’azienda: un gruppo compatto di donne operaie con in mano quel lievito madre custodito da decenni. «Le ho viste uscire mettendo in salvo il lievito che avevamo un po’ umanizzato, dicendo che sembrava un insieme di tante faccine smile».

È stata responsabile del controllo qualità di stabilimento, oggi si occupa anche delle donazioni, e di prodotti sfornati ne ha visti di ogni genere. Nel suo cuore restano la Stella di Verona, «somigliava al nadalin» e il biscotto all’albicocca a forma di fiore «la mia merenda preferita». La fabbrica ha cambiato faccia, lei ha assistito e contribuito a ogni svolta, «prima non si dosava tutto con i macchinari, le donne andavano a intuito». Il ricordo più bello? «Questa ruota che girava con l’impasto del pandoro… e le vasche di zucchero a velo che erano uno spettacolo da guardare». Insomma, Elisabetta: team pandoro, giusto? «No» ride. «Che ci posso fare, amo i canditi: per me vince il panettone».

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