Piatti da chef sognati e mai realizzati. I grandi della cucina si confessano

28 Gen 2020, 12:00 | a cura di
I grandi chef si confessano: tutte le volte che non sono riusciti a realizzare il piatto che avrebbero voluto.

Volevano tanto realizzare proprio quel piatto ma non ci sono riusciti, hanno deciso di rinunciare, hanno cambiato strada con l’idea di ripercorrerla poi in futuro. Abbiamo chiesto ad alcuni grandi (anzi grandissimi) cuochi di sforzarsi a pensare proprio a quando si sono trovati in una situazione simile. Ne sono uscite fuori delle riflessioni interessanti.

Piatti mancati

Piatti da chef sognati e mai realizzati

“Fallisci ancora. Fallisci meglio”, si raccomandava Samuel Beckett nel romanzo Molloy. “Sono gli spettacoli non riusciti ad alimentare quelli riusciti, mentre quelli riusciti alimentano solo la carriera”, confermava Luca Ronconi. Sta di fatto che creazione e fallimento sono legati a doppio filo, anche in cucina. Piatti sognati e mai realizzati, rincorsi, accantonati, ripescati per un bizzarro fenomeno di eterogenesi culinaria. Piatti caduti prima di arrivare in tavola o che nel tragitto dal passe alla mise-en-place si sono trasformati in qualcos’altro.

Piatti di passaggio e piatti mancati; errori creativi ed evolutivi, falcidiati dal darwinismo dello stile. Dietro quello che vediamo e mangiamo spesso c’è una cucina non nata, senza la quale i signature che mandano in visibilio critici e gourmet non sarebbero esistiti. Una cucina invisibile, e pur tuttavia indispensabile. Come una centina per l’arco.

Piatti mancati

Sulla scorta di un libro di Achille Bonito Oliva

Nel 2006 Achille Bonito Oliva ha chiamato a raccolta un gruppo di artisti, per chiedere loro in che misura la propria espressione fosse stata condizionata da un’opera d’arte mancata. L’arte e le sue voci. L’arte è un “dimenticare a memoria” si chiama il volume, teso a indagare il ruolo del rimosso nel processo creativo: nel senso che è l’artista stesso, attraverso un atto volontario, a decidere cosa cancellare dal proprio campo concettuale, accademismi, tic, convenzioni anche individuali. Come per un moto di liberazione.

Piatti mancati

Ne ripercorriamo le orme in cucina, chiedendo ad alcuni fra i più grandi cuochi del mondo se esiste un piatto che hanno sempre sognato di realizzare, senza riuscirci, alla maniera dell’utopia del monoingrediente marchesiano. Oppure un piatto che a posteriori considerano un personale fallimento, magari anche un errore indispensabile per sviluppare il proprio stile, di cui però si vergognano. Infine cosa significhi esattamente “dimenticare a memoria” – titolo del libro – in cucina. E cogliamo l’occasione per interpellare Bonito Oliva in persona: è vero, come scrive un altro critico, Francesco Bonami, che l’ultima avanguardia è l’arte culinaria?

Ferran Adrià parla dei suoi piatti mancati

Ferran Adrià. Il piatto che non sono riuscito ancora a fare? Il gelato caldo!

Qualcuno l’ha preso come uno scherzo, qualcun altro come una stramberia, ma c’è un piatto che non sono mai riuscito a realizzare: il gelato caldo, sebbene ci abbia provato tante volte. A elBulli ovviamente facevamo molti tentativi e quando una ricetta non entrava in menu, quindi restava esclusa dal catalogo, finiva in un allegato chiamato “ciò che può essere e non è stato”. Poteva accadere che l’anno successivo l’idea fosse ripresa e dopo ulteriori tentativi entrasse nel catalogo e nel menu. Alcuni piatti potevano contenere un’elaborazione o un concetto incredibili, ma al momento della verità consideravamo che mancasse ancora qualcosa.

Se mi vergogno di qualche ricetta? Direi di no, anche se alcune erano sicuramente al limite di quello che consideravamo valido dal punto di vista gastronomico; tuttavia incorporavano altri valori, come la provocazione e lo spettacolo. In generale questa dinamica prova-errore è fondamentale nel momento della creazione. Se non si fallisce, e se non si ragiona sul motivo del fallimento, è impossibile avanzare. Ma non credo che un cuoco d’avanguardia debba forzatamente dimenticare qualcosa: deve piuttosto relativizzare tutto. Insomma deve dimenticare che esistono certezze indubitabili. Per creare e avanzare è indispensabile comportarsi come se non ci fosse nulla di sacro. Verrà poi il momento di analizzare se quanto fatto avesse un senso o meno.

Andoni Luis Aduriz

Andoni Luis Aduriz. Al Mugaritz consideriamo la “sconfitta” come l’anticamera del “trionfo”

Ci sono molte cose che non sono riuscito a realizzare. Ma l’importante è imparare dai propri errori. Al Mugaritz non contano i risultati, ma il cammino percorso. A volte sbuchiamo su sentieri interrotti e vicoli ciechi, cosicché dobbiamo tornare sui nostri passi. In questi transiti impariamo molto ed è così che si generano nuovi cammini, dai quali subito raggiungiamo la meta o siamo in condizione di porci nuove domande. Ci sono piatti al Mugaritz la cui gestazione è durata diversi anni. Durante la fase creativa, quando il ristorante è chiuso, da metà gennaio fino a metà aprile, mettiamo a punto oltre 100 idee. Un anno magari proviamo, ma la sperimentazione non passa il test di qualità che speriamo oppure la tecnica non è sufficientemente sviluppata. Tuttavia, se l’idea è buona, la teniamo in serbo per continuare a lavorarci. Una delle nostre regole è non sprecare niente, perché ciò che per alcuni è un errore, da un altro punto di vista può servire come esperienza anche negli anni successivi. Per noi la cosa più importante è che ciò che facciamo abbia un senso. Per esempio il piatto “Peluria di vita” dello scorso anno lo studiavamo dal 2015, quando non riuscivamo a dominare il microrganismo, in modo che producesse la testura desiderata. Ma non mi vergogno di nessuna ricetta: vergogna è un termine che non esiste nel mio vocabolario. Ciò che può cambiare è la quantità di lavoro necessaria. Dagli errori si può imparare molto più che dai successi. Sbagliare fa parte del percorso creativo e fa parte dell’apprendimento. Il glossario che utilizziamo al Mugaritz si compone di parole che normalmente non rientrerebbero in un vocabolario di cucina: per esempio “bacio”, “austerità”, “errore” e “frontiera”. Ne fa parte anche il vocabolo “sconfitta”, che definiamo come “anticamera del trionfo”. Questo glossario, incluso nel nostro ultimo libro, Mugaritz, Punti di Fuga, viene portato ai nostri ospiti prima che inizino la loro esperienza, affinché li aiuti a tradurre o decifrare il linguaggio e il particolare modo di essere del Mugaritz. Cosa deve dimenticare a memoria un cuoco di avanguardia? I pregiudizi.

Massimiliano Alajmo

Massimiliano Alajmo. Volevamo far ascoltare ai nostri ospiti il loro stesso battito cardiaco, ma abbiamo dovuto cambiare strada

Mi viene in mente un caso: nella ricerca del Gioco al cioccolato di un anno fa, l’intento iniziale era quello di far ascoltare all’ospite il proprio battito cardiaco, in modo da vedere se riusciva a percepire l’eventuale accelerazione e l’emozione che poteva ricevere durante la degustazione, misurando in qualche modo i suoi stessi stati emozionali. Abbiamo fatto un tentativo con una strumentazione simile a uno stetoscopio, ma al momento della messa in atto ci è sembrata una cosa troppo invasiva e complessa. E alla fine siamo arrivati a un diverso Gioco al cioccolato, lavorando sulla cassa armonica che amplifica il suono della materia stessa. Ma mi è rimasta quest’idea, questo gioco di poter ascoltare l’accelerazione o il rallentamento del proprio battito, per capire, conoscersi e constatare le diverse reazioni rispetto al cibo freddo o caldo, di contrasto o rassicurazione. Non significa che la strada sia totalmente abbandonata, perlomeno il pensiero resta. Siamo andati a finire su questo gioco diverso, che però ha lasciata viva una curiosità affascinante. Riguardo al tema dell’oblio, è stato al centro del Master della Cucina Italiana di quest’anno: Dimenticare per ricordare. Nel senso che il giorno in cui non pensi più a quello che stai facendo, ma semplicemente traduci l’azione in sentimento, è il momento in cui hai iniziato a dimenticare per ricordare. Impastare un pane o cucinare un uovo sono gesti antichi, ma la consapevolezza che lo sono davvero la percepisci nel tempo, la riconosci nel momento in cui le tue mani non sono preoccupate del buon esito delle loro azioni, ma sono intente ad ascoltare e a perdersi nella bellezza del gesto stesso. La cucina porta con sé un bagaglio antico, un messaggio forte e silenzioso che per evolvere deve necessariamente passare attraverso una consapevolezza e un rispetto di ciò che è stato.

Massimo Bottura parla dei suoi piatti mancati

Massimo Bottura. Raggiungere il silenzio del sapore: come il nero in pittura è la somma di tutti i colori

Piatti non realizzati, ma pensati. Un po’ come la cucina futurista. Non ha avuto successo perché si sono presentati a Parigi con un signor nessuno, invece di coinvolgere Fernand Point. Un grande cuoco può improvvisare e aggiustare, ma non ci si può improvvisare grandi cuochi. Partiamo dal processo creativo: l’idea, non un piatto specifico. Credo che un grande cuoco non possa arrivare a un risultato sotto le aspettative, perché il suo palato mentale gli mostra già l’esito finale.

Una volta, mi sembra ad Andrea Grignaffini, avevo parlato di un piatto ideale dove riuscire a raggiungere il silenzio del sapore, aggiungendo ingrediente a ingrediente. Allo stesso modo in cui dall’addizione di tutti i colori deriva il nero nella pittura o il bianco nella luce. Quindi aggiungendo ed equilibrando sapore a sapore ho il sogno di ottenere non un gusto forte che tenda a qualcosa di specifico (il sapido, il salato, il dolce...), ma un sapore assoluto che contenga tutto e possa essere… delicato.

Enrico Crippa parla dei suoi piatti mancati

Enrico Crippa. Non ho ancora avuto il coraggio di fare un dessert con le cipolle fresche

Per i cuochi il “piatto mancato” è vissuto quotidiano. Soprattutto per chi, come noi, lavora sull’orto, dove possono accadere tante cose: sbagli, errori della natura, scherzi della stagione che costringono a elaborare prodotti sfioriti o andati in canna, ovvero troppo cresciuti. I cardi, per esempio, un anno li abbiamo legati e interrati per farli sbiancare, ma una settimana dopo è uscito un caldo anomalo e hanno cominciato a marcire. Abbiamo scoperto che le foglie esterne erano andate, ma il midollo era cresciuto. Così, non volendo compostare tutto, abbiamo messo da parte questi 50 cuori e li abbiamo cotti a lungo sottovuoto con olio di vinaccioli: una dolcezza e una tenerezza incredibili. Li abbiamo serviti con uovo salato, una salsa tipo bagnacauda senz’aglio e tartufo bianco. È una ricetta che non abbiamo più potuto ripetere, ma se potessi la rimetterei immediatamente in carta.

Poi ci sono quei piatti di cui sono innamorato, ma se provo a fare un test con i clienti affezionati, che mi danno carta bianca, magari non vengono capiti. Allora li abbandono, oppure li rivedo, magari li riprendo dopo una stagione o due, tal quali. Anche se gli “errori” andando avanti sono sempre più rari, perché si studia di più e ci si sintonizza con la clientela. Ma c’è ancora un piatto bello pronto, che non ho avuto il coraggio di servire: un dessert con le cipolle fresche, che quando sono appena colte, come tutti gli ortaggi, risultano ancora più dolci. Il loro centrifugato ridotto è uno sciroppo che si può usare su qualsiasi cosa, un sorbetto: come un biscotto con creme varie.

La cucina, per finire, è tutto un dimenticare per ricordare, riprendere e abbandonare: nei momenti di calma, prima della tempesta del servizio, scrivo su foglietti volanti le mie idee, poi quando non ho niente da fare li riguardo e magari riprendo qualcosa. Anche i clienti a volte svegliano ricordi latenti, in questo vortice di intuizioni spesso irripetibili legate al vegetale.

Niko Romito

Niko Romito. Il pollo: non riesco a servirlo al Reale perché non ho ancora la ricetta definitiva

La mia cucina riposa sulla massima complessità e preparazione, richiede tentativi infiniti, prove su prove, ragionamenti che a volte non trovano una soluzione. Quando cerco di iniziare un lavoro, non penso mai se devo fare un antipasto, un primo o un secondo, ma parto dall’ingrediente. Vuol dire conoscerlo, compiere tantissime prove, soprattutto iniziare a tentare qualcosa che sulla carta potrebbe sembrare scorretto. Perché solo così spesso arrivano le idee. La verza, per esempio, ha rappresentato un lavoro sul vegetale importante, dopo il carciofo e la melanzana: anche qui un unico ingrediente e dei più quotidiani, assurto a dignità di portata, in grado di sostituire tranquillamente carne e pesce e servito con forchetta e coltello, perché struttura e masticazione sono importanti. Senza salse né elementi estranei, perché è tutto dentro la materia: l’estetica, la struttura, il gusto. Anche se all’inizio succedeva che qualcuno alzasse il sopracciglio. Significa lavorare sull’ingrediente, trasformarlo e perfino distruggerlo: tutti i miei ragazzi in cucina si appuntano ogni prova, i grammi di sale, il grado in più o in meno, che può fare la differenza, il punto di ossidazione. Qualcosa di millimetrico. C’è voluto un anno, ad esempio, per capire che l’ortaggio migliorava dopo una lunga maturazione in atmosfera modificata, che oggi protraiamo fino a 100 giorni, in modo da aumentare la complessità gustativa e compattare le foglie fra loro. Tanto che alla fine sembra quasi un arrosto di vitello. Ma non sempre la ricetta è a portata di mano: il pollo per esempio mi ossessiona e lo servo in tanti locali, mai al Reale però, perché non ho ancora trovato il mio ideale, la ricetta definitiva. Il pollo dopo il quale non c’è nessun altro pollo. E ci sono ricerche che non sono andate a buon fine, ma hanno propiziato altre realizzazioni, per esempio volevo ricavare una salsa dall’acqua di governo della provola affumicata, ma avendola per le mani ho iniziato a cuocervi il riso e la pasta. E così è nato Riso, patate e pepe.

Dimenticare a memoria è una formula che dice tanto di me. Una volta Bob Noto mi chiese da dove traessi ispirazione e io risposi in negativo, elencando quelle che non erano le mie fonti. Lui replicò che a suo parere a ispirarmi era la cucina italiana domestica, per la costruzione, la semplicità, la descrizione. Cosa si mangia oggi? Carciofi, verza, cavolfiore. Il gusto di un passato che vira e prende un’altra direzione.

Mauro-Uliassi

Mauro Uliassi. Sperimentando, i piatti mancati sono tanti. A partire da quelli che non piacciono ai miei ospiti

Piatti mancati? Quando un cuoco sperimenta, come tutti gli anni facciamo nel quadro del nostro Lab, sono la norma: le idee le buttiamo giù tutte quante, poi scegliamo quelle che riescono meglio o ci sembrano più congeniali al nostro pubblico. Perché io sono cresciuto nel bar di famiglia, dove il cliente era sacro, era lui quello che ti permetteva di comprare le scarpe nuove ai bambini. E cerco tuttora di fare una cucina trasversale, che possa piacere al gourmet come al cliente comune, anche se ci sono linee rivolte a determinati palati. Ne parlai a suo tempo con Paolo Lopriore: se un piatto non piace, io lo tolgo; mentre lui sentiva di non dover tradire il suo pensiero.

È successo che ci innamorassimo di piatti, che però non funzionavano. Allora li abbiamo accantonati e magari ripresi, in una nuova versione o in parte dentro un altro piatto, dopo qualche anno di stand-by. Perché quando si ricerca, nulla si distrugge, più facilmente si trasforma: chiamiamolo effetto Lavoisier. Per esempio il pancotto, che ha avuto una gestazione di 4 anni. Inizialmente non aveva un grande appeal, mancava il feed-back, ma quando ci abbiamo rimesso mano è diventato un’icona. E adesso fa il 100% di gradimento. Un altro caso è stata la cipolla osmotizzata al succo di ciliegia e ciliegia al rosmarino, piatto concepito nel 2011 e assaggiato da una ventina di persone, con tanti complimenti, che però non fu capito al tavolo, perché i tempi erano acerbi. È diventato il predessert del Lab lo scorso anno.

Delle tante cose che pensiamo, solo un 20% finisce sulla carta, ma non è una delusione: il pensiero è sempre molto ampio, poi interviene un setaccio su cui il movimento va e viene. L’ostrica l’abbiamo accantonata e poi recuperata, come il binomio frutti di mare-salumi: oggi, dopo una ricerca sui Monti Sibillini, la serviamo appena scottata con grasso fuso di prosciutto, dai sentori rancidi, perfetto sulla sapidità del mollusco, ceviche al timo limonato e acqua di ostrica gelata all’aceto come una salsedine. Simile e diversa da un vecchio piatto di Ducasse. Un altro sapore primordiale, fuori dall’omologazione, che stiamo investigando, è quello dell’agnello, che una volta aveva una nota stallatica che è andata perduta. Perché il consumatore non la vuole. Ma esistono ancora agnelli con questo timbro di sapidità: sono quelli allevati al pascolo e dopo 4 o 5 anni di lavoro, trovata la bestia giusta, finalmente siamo riusciti a mettere sul piatto la testa con tutti i suoi pezzi, il cervello, l’occhio, la lingua e la guancia, insieme a un crostone di pane bagnato nel brodo di pecora col pecorino. Alla ricerca dell’intensità delle vecchie osterie, dove andavo con mio padre dopo la caccia. E adesso stiamo lavorando sull’anguilla: è già un ottimo piatto, ma ancora non padroneggiamo la variabilità della materia. Ci riusciremo.

La cucina come dimenticare a memoria? È la base per avanzare pienamente. Significa dimenticarsi di tutto, non solo di ciò che non ci piace più, ma anche e soprattutto di quello che ci ha dato successo. Solo così è possibile continuare a liberare lo spirito creativo. Il cervello immagazzina comunque un percorso, con il quale non ci si deve identificare troppo a lungo. Ciò che conta è definirsi niente, staccarsi dal proprio ego. Come dice il saggio, se vuoi riempire un vaso, devi prima svuotarlo. Solo così è possibile rigenerarsi. Il nostro stile è un non stile che si rinnova di continuo, che non ha una meta, ma compone un continuo, interminabile viaggio.

a cura di Alessandra Meldolesi

disegni di Marcello Crescenzi

Articolo uscito nel numero di luglio 2019 del Gambero Rosso, il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store
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