Tutti lo rivendicano come autoctono, ma la sua fortuna sta nell’essere sostanzialmente apolide e capace di acclimatarsi bene in qualunque zona assolata. Ha un’abilità quasi ineguagliabile di resistere a salsedine, siccità e calore, ed è per questo che è tradizionalmente legato a regioni dove il mare è una presenza costante: per esempio la Liguria, dove anche il Pigato è suo parente, la Gallura e la Romangia in Sardegna, dove si trovano alcune delle piante più antiche. Di tanto in tanto lo si scova anche nell’entroterra: in Piemonte, per dire, è noto con il nome Favorita.
Il suo profilo varia radicalmente di zona in zona: passa dal floreale all’esotico, dall’erbaceo al pepato, dal “semplice & disimpegnato” a concentrazioni importanti che permettono ad alcune versioni – soprattutto sarde – di tenere testa anche a piatti tosti. Eppure, mantiene sempre una freschezza salina più che acida: questa, allineata a un frutto generoso, rende il vino sfizioso, scorrevole, perfetto per la bella stagione. A patto, però, che lo si lavori bene: la sua natura di uva semi-aromatica e la sua presenza in zone calde significano che, raccogliendo male o usando lieviti sbagliati, si rischia di tirarne fuori vini molli, scomposti o semplicemente banali.
Insomma, il Vermentino sta prendendo piede in molte parti d’Italia: in Toscana ha cominciato a erodere il dominio delle uve rosse nelle parcelle più prossime alla costa, dove la presenza di argilla è modesta e la sabbia rende più complicata la maturazione del tannino, soprattutto negli anni in cui le piogge scarseggiano. E se fino a qualche vendemmia addietro trovare uno “stile toscano” era più o meno impossibile, oggi si comincia a una notare una maggiore uniformità, soprattutto tra i vini più semplici, che mettono insieme l’impronta mediterranea con un frutto più maturo rispetto alla Liguria, ma senza il residuo zuccherino di alcune versioni sarde. «Tutto sta nel trovare un equilibrio tra i cloni corsi, che qui hanno attecchito molto bene e danno più aromaticità, e quelli italiani che conferiscono più freschezza», spiega Stefano Billi, proprietario di Fornacelle a Bolgheri. Il suo è uno dei prodotti più solidi nella fascia dei vini abbordabili, ma c’è anche chi si spinge oltre.
Da Belguardo di Mazzei a Cobalto di Val delle Rose, le versioni premium tra i produttori iconici della regione – in particolar modo in Maremma, dove sembra aver trovato una dimora d’elezione – sono in crescita. E ci sono anche outsider che fanno grandi cose: esemplare il caso di Unnè di Poggio Levante, frutto di un progetto incentrato su vigneti a 400 metri sul mare in zona Montecucco, più vicino a Montalcino che alla costa. Poche bottiglie renane con tappo a vite che, dopo qualche anno di riposo, esplodono in tripudio balsamico e di idrocarburi come a evocare l’intreccio tra Libeccio e correnti montane dell’Amiata.
Ma l’avanzata del Vermentino si estende oltre la Toscana: a Tarquinia, sul litorale nord laziale, Marco Muscari Tomajoli ne produce una versione molto centrata che va in tutto esaurito a pochi mesi dall’ingresso in commercio. Non lontano dalle spiagge di Fregene, i suoli franco-sabbiosi intorno al Castello di Torre in Pietra danno vita ad Arenaro, un’altra espressione che ci ha convinto negli assaggi della guida Vini d’Italia 2026 di Gambero Rosso.
Molto più a sud, in Sicilia, c’è chi ne ha piantati diversi ettari: è già presente nella linea di Settesoli, la più grande cooperativa della regione, e in quella di Valle dell’Acate, azienda storica del ragusano. «Ho cominciato a impiantarlo quando ho espiantato lo Chardonnay: dà vini contemporanei che esprimono bene il territorio mediterraneo», spiega la titolare Gaetana Jacono.
E fuori dall’Italia? Be’ la Corsica primeggia con il suo Vermentinu, geneticamente un po’ diverso sia da quello sardo che dai cloni peninsulari. Sulla costa mediterranea francese, invece, la sua presenza con il nome Rolle – quello italiano è vietato per normativa europea – è significativa, ma il più delle volte finisce in assemblaggio con altre varietà.
Poi ci sono quei territori del Nuovo Mondo vitivinicolo che con la costa italiana hanno qualche affinità climatica: per esempio le ben ventilate zone dell’Australia, dove ce n’è traccia. La superficie ricoperta non supera i 125 ettari in tutto il Paese, secondo le poche fonti reperibili, ma la stampa locale associa il suo successo in certe nicchie alle “mojito and margarita vibes”, quasi a voler suggerire un profilo aromatico mentolato e botanico che strizza l’occhio ai bevitori più giovani con i suoi richiami ai sapori della mixology.
Anche in California il Vermentino copre all’incirca 100 ettari. E tra le aziende che per prime l’hanno piantato c’è Tablas Creek, la realtà di riferimento in quel di Pablo Robes, nella costa centrale, per tutto ciò che non è Cabernet, Chardonnay o Zinfandel, a partire da vitigni mediterranei come Syrah e Grenache che, prima del lancio del rosso di punta Esprit de Tablas (in origine Esprit de Beaucastel, per richiamare la partnership con l’omonima azienda del Rodano), erano all’anno zero negli States.
«È il vitigno più semplice in assoluto da coltivare e uno dei più facili da vinificare. Il suo vigore e la sua produttività sono notevoli, così come la sua capacità di resistere ai virus endemici nei nostri vigneti», spiega il titolare Jason Haas. Per ora le bottiglie sono circa 12mila, vendute direttamente in cantina oppure ai membri del wine club e chiuse con tappo a vite per esaltare freschezza e profumi varietali. Ma lui intravede un potenziale molto più grande: «Recentemente ho detto ad alcuni colleghi che tre quarti del Sauvignon Blanc in California dovrebbero essere sostituiti con il Vermentino: questo perché non devi proteggerlo dal caldo di questa Regione. Puoi semplicemente metterlo su un pendio assolato e lasciargli fare il suo corso».
Insomma, il Vermentino è il vitigno più capace di parlare l’esperanto della viticoltura del mare e del sole. «Credo che il suo futuro sia luminoso», conclude Haas. E luminosità è la parola giusta per sintetizzare i vini che ne possono nascere.
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