L'intervista

“Nessuna crisi del vino. La Francia? Rinunciataria. Non è più un modello”. Mastroberardino ribalta la prospettiva

Il presidente di Grandi Marchi e coordinatore del Tavolo della filiera vino dice no alle misure di contenimento dell’offerta: “Bisogna lavorare sulla domanda”. A partire da una grande campagna di comunicazione in Italia

  • 09 Ottobre, 2025

«È un periodo complesso ma stimolante per noi uomini del vino. Un periodo di grandi cambiamenti in cui bisogna essere in grado di interpretare i fenomeni e scrivere il nostro futuro. Restiamo noi gli artefici del nostro cammino». È ottimista il professore e cavaliere del lavoro Piero Mastroberardino che, nella serata romana in cui l’Istituto Grandi Marchi ha premiato il giornalista giapponese Isao Miyajima, ha dato la sua interpretazione di questa delicata fase del settore.

Per il presidente del gruppo che riunisce 18 grandi imprese vitivinicole italiane, gli interventi strutturali non servono (come invece suggeriva il documento Eurispess pubblicato a inizio mese, ricordando le proposte già avanzate da Unione italiana vini) piuttosto bisogna lavorare sulla domanda, soprattutto quella interna. E a tal proposito, il produttore irpino, che è anche vicepresidente di Federvini e coordinatore del Tavolo della filiera del vino, ha in mente una grande campagna nazionale per incentivare i consumi. Una campagna che dovrebbe vedere in prima fila il Governo.

foto di gruppo Istituto Grandi Marchi nella serata di premiazione del giornalista giapponese ed esperto di vino Isao Miyajima

Professore, entriamo subito nel merito della questione: il vino italiano è in crisi o no?

No, il vino non è in crisi. Sicuramente è in una fase di profondo cambiamento che va interpretato e gestito. Da sempre i grandi cambiamenti ridefiniscono le regole e fanno vedere nuovi scenari e opportunità.

E quali sarebbero in questo momento le opportunità? Molti produttori stentano a vederle.

Un’opportunità, ad esempio, è la revisione stilistica dei vini che si stanno facendo. E non parlo di intervenire necessariamente con operazioni di dealcolizzazione, ma lavorando sui vini naturalmente a bassa gradazione, mantenendo l’equilibrio organolettico. Il nostro compito è interpretare il momento e rivedere la nostra offerta. La parola d’ordine è governare i processi.

Difficile, però, governali se dal primo mercato di sbocco del vino, arriva la batosta dei dazi

Non credo che al momento abbiamo un grosso contraccolpo di mercato per quanto riguarda gli Stati Uniti. Almeno nulla di drammatico da cui non si possa ripartire.

Però nel solo mese di luglio c’è stato un crollo del 26% a valore. E questo potrebbe essere solo l’inizio.

Di fatto al momento non abbiamo scontato il vero effetto dei dazi, perché per legge gli sdoganamenti su cui si applicano le tariffe sono iniziate il 5 ottobre, quindi, le conseguenze maggiori potremmo averle nelle prossime settimane. Settimane, per altro, decisive per la campagna natalizia.

E come si spiegano questi cali allora?

Sono legati al clima di incertezza sul futuro, perché i buyer devono decidere se rischiare e comprare di più o aspettare. Io credo che, se riusciamo a muoverci tempestivamente sul fronte trattative, possiamo ancora limitare i danni.

Ma proprio nel bel mezzo delle trattative, sono stati annunciati i super dazi sulla pasta italiana. Non è un bel segnale.

Più che altro è un annuncio che dà fastidio. Certo la pasta non è il vino, ma senza entrare troppo nel merito della quesitone, ci sono già pastifici che hanno portato la loro produzione negli Stati Uniti, quindi, credo che questo possa alterare la concorrenza italiana del settore. Ad ogni modo, per quanto riguarda il vino, io resto fiducioso, anche se non nego che questa imprevedibilità ci fa male visto che le aziende vivono di pianificazione. Abbiamo già vissuto un anno di eccessiva incertezza.

A proposito di incertezza, lo scorso 4 agosto è stato convocato il Tavolo del vino, con tutta la filiera che lei rappresenta. Tra le proposte si è parlato anche di riduzione dell’offerta attraverso il contenimento delle rese e lo stop ai nuovi impianti per almeno un anno. Cosa ne pensa?

Io, come uomo di impresa, credo che dobbiamo sollecitare la domanda prima di ridurre offerta. Bloccare le autorizzazioni significa bloccare la crescita. Poniamo che delle aziende abbiano fatto degli investimenti sui prossimi cinque anni, facendo affidamento su quell’incremento: che gli diciamo adesso? Non sarebbe accettabile mettere un freno. Vorrebbe dire tarpare le ali allo sviluppo delle imprese. Servirebbe, semmai, una riflessione più segmentata per zone: non tutte le regioni sono uguali.

E sulla riduzione delle rese vale lo stesso ragionamento?

No. Intervenire sulle rese è una misura congiunturale e non strutturale, quindi ha un altro valore. Più che altro mi chiedo se come intervento possa avere efficacia, visto che in molte zone le rese sono già naturalmente ridotte.

Passiamo alla misura più controversa: l’estirpazione. La Francia ha già iniziato, mentre la Germania ha appena chiesto all’Europa un piano di espianti paneuropeo. Immagino non rientri nella sua idea di futuro del vino.

Espiantare significherebbe affermare che il settore non funziona ed è in declino. Se mandiamo questo messaggio al mercato, va da sé che nessuno, né del settore pubblico né di quello privato, avrebbe più interesse ad investirvi. Io, da uomo di impresa, mi rifiuto di non vedere un futuro radioso davanti a noi.

La Francia però non la pensa allo stesso modo e, infatti, è già corsa ai ripari. Per anni abbiamo avuto questo mito del vino francese: oggi non è più un modello da seguire?

Direi che non può più esserlo. Quel che vedo è una Francia molto indebolita e rinunciataria. Anche le lobby francesi del vino stanno pericolosamente tirando i remi in barca.

E se, invece, avessero semplicemente fatto i calcoli meglio di noi, che siamo gli unici a non aver ridotto l’offerta?

Io penso di no. Certe misure non risolvono il problema di equilibrio tra domanda e offerta. I mercati non funzionano a camere stagne. Interventi draconiani, come il taglio indiscriminato, non risolvono i problemi strutturali. E poi c’è da dire che i produttori francesi sono abituati a certe quotazioni dei vini e, magari, pensano in questo modo di farle risalire.

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Quindi il loro è un po’ un gioco d’azzardo?

Direi più un gioco di rinuncia, perché intanto stanno dicendo al mercato che sono deboli. E se queste sono le premesse mi sembra improbabile che si possa recuperare valore. Io ci vedo poca visione.

Se, quindi, la Francia non è più un modello, cosa dovrebbe fare adesso l’Italia?

Lavorare proprio sull’Italia per sollecitare la domanda interna. Perché in questo momento siamo il primo paese produttore e abbiamo il dovere di ripartire da noi e dalla nostra gente, parlando anche a quelli che non sono già dentro al nostro mondo. Per farlo, però, dobbiamo usare un linguaggio diverso. Inutile che continuiamo a focalizzarci sul passato, sulle culture millenarie o sulla geografia dei suoli. L’obiettivo è allargare la torta che, negli ultimi anni, si è ristretta.

E in che modo pensate di riuscirci?

Con una campagna di comunicazione nazionale. È un progetto di cui ho già parlato con il Governo. Il primo briefing dovrebbe essere nelle prossime settimane.

Sul mercato interno, però, c’è un altro tema che sta tenendo banco in queste settimane: i ricarichi dei vini nei locali. Assoenologi ha chiesto un patto di solidarietà ai ristoratori, che però hanno, in un certo senso, rimandato al mittente. Come si risolve?

È una vecchia storia. Per capire come stanno le cose basta vedere quello che è successo nella stagione turistica che si è appena conclusa: la ristorazione, nonostante il momento di picco, non ha lavorato a pieno regime. Il problema esiste: stare attenti all’offerta è un obbligo per tutti. E soprattutto non bisogna rompere il rapporto di fiducia con il cliente. Il valore immateriale dell’offerta turistica vale molto di più di un singolo vino o di un piatto.

Anche se il problema va esteso alla clientela di tutti i giorni.

Sì, ma non dimentichiamo che il cliente nel nostro paese è anche turista. E costruire questo rapporto al ristorante significa dare valore a tutta la filiera.

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