Visiti un borgo vitivinicolo nell’entroterra della Sardegna e ti aspetti di vedere persone molto anziane e vigne centenarie. È parte dello stereotipo della regione: l’immagine di un luogo dove il tempo si è fermato e gli anni non si contano nemmeno. E non c’è dubbio sul fatto che quest’idea corrisponda in parte alla verità.
A Mamoiada, tra le vette del nuorese, il bar pullula di ultraottantenni – peraltro in forma smagliante – e la campagna è piena zeppa di antichi alberelli: il più vecchio potrebbe avere addirittura 300 anni. Ma ci sono anche molti giovani che stanno invertendo la tendenza allo spopolamento di questi luoghi: partecipano al rito ormai celeberrimo del carnevale mamoiadino, indossando le maschere apotropaiche dei mamuthones e degli issohadores, danzando per le vie del paese con campane sulle spalle che risuonano ad ogni passo. Soprattutto, hanno trasformato le cantine di famiglia, in passato dedite alla produzione di vino sfuso per autoconsumo o per il mercato locale, nel tipo di realtà che fanno da calamita per gli appassionati. Stanno impiantando nuovi vigneti al fianco di quelli storici, sempre più vicini al picco della denominazione che parte da 600 metri di altitudine e sfiora i 950.
Le vigne dell’azienda Francesco-Cadinu
Si potrebbe parlare dell’exploit dei loro vini di montagna come dell’equivalente sardo del boom siciliano dell’Etna. Eppure c’è una differenza sostanziale: mentre il vulcano è stato riscoperto in larga parte da viticoltori e investitori venuti da fuori, qui l’appartenenza alla comunità è un valore cardinale. Tra le regole per essere parte di Mamojá, l’associazione nata nel 2015 per mettere insieme i vignaioli del territorio, c’è proprio l’obbligo di risiedere nel comune di Mamoiada: «È per tutelarci dalle speculazioni e fare in modo che la terra rimanga in mano a chi la coltiva», ci spiega uno dei membri.
Basta farsi un giro tra i sentieri sterrati di Mamoiada per capire la vocazione del posto alla produzione di “fine wines”: i terreni da disfacimento granitico frenano la vigoria della vite, i valloni – alti e relativamente stretti – incarnano i venti freddi che discendono dal Gennargentu, la catena montuosa più alta della Sardegna, ma anche quelli marittimi dal golfo di Orosei che dista qualche decina di chilometri in linea d’aria. Sulle etichette appare spesso la parola Ghirada, che significa vigna e indica l’estrema frammentazione della proprietà; potrebbe essere o l’equivalente dei cru di Borgogna oppure delle contrade dell’Etna. Anche se un paragone esatto non lo si può fare perché più che la geologia, abbastanza omogenea in tutto il comune, sono l’esposizione e la collocazione a fare la differenza. E i soliti dettami della viticoltura sembrano quasi capovolti: a sud, sud-ovest si trovano alcune delle vigne più fresche perché influenzate dal Gennargentu e dal Monte Gonare; a nord, nord-est la luce e il calore del mare, che s’intravede da alcuni poggi nelle giornate più terse, accelerano la maturazione.
«Nei Cannonau delle Ghiradas a sud e sud-ovest si riscontra uno stile più erbaceo che ricorda i grandi Cabernet Franc», rimarca Tom Muellen, giornalista americano e collaboratore di Forbes, nel suo intervento a Mamojà Vives, l’evento annuale dell’associazione.
Il vitigno rosso sardo par excellence è il protagonista assoluto della produzione: dà vini coerenti nel collocarsi agli antipodi rispetto al Cannonau d’antan, sgraziato e sovraestratto, legato a problemi di arretratezza enologica più che alle caratteristiche di un vitigno che – come tutte le Grenache del mondo, delle quali è parente diretto – riesce a esprimere grande eleganza anche in luoghi estremamente assolati. In base alla declinazione stilistica, il Cannonau mamoiadino può essere estremamente delicato e arioso, quasi simile ai grandi rossi d’Oltralpe, oppure più scuro e terroso. Ma si nota sempre una coerenza nel dimostrare equilibrio anche quando l’alcol supera i 15 gradi, grazie ad acidità sostenute e tannini quasi impercettibili. Parliamo, peraltro, di fine wines contemporanei perché prodotti seguendo criteri non interventisti: nel disciplinare dell’associazione sono indicati l’obbligo di gestire il vigneto in biologico e la fermentazione spontanea.
«Sono requisiti che vorremmo fossero previsti anche in un’eventuale sottozona o denominazione», spiega Salvatore Sedilesu, presidente di Mamojà. Il problema più grande di Mamoiada è proprio che per ora i vini rientrano nel calderone del Cannonau di Sardegna Doc o nella Igt Barbagia. L’unico modo di dargli un’identità specifica è fare parte dell’associazione e riportare in etichetta il logo Mamojá, ma si sta lavorando per trovare un rimedio a questo paradosso.
Ecco una selezione dei vini che ci sono piaciuti di più tra quelli degustati durante Mamojà Vives, l’evento annuale dell’associazione Mamojá.
La prima cifra nelle note di degustazione che seguono si riferisce al punteggio in centesimi
Sottile sulle prime e poi sempre piú eloquente e complesso, abbina toni di gelatina di frutti rossi e fiori in appassimento a radici, erbe botaniche e un soffio di eucalipto. A metà strada tra Borgogna e Chateauneuf du Pape per combinazione di frutto di rara purezza, tannino soffice, ritorni di macchia mediterranea, che danno eleganza ed ampio respiro al finale. Un capolavoro.
Il naso porta quasi in Cote de Nuits e dintorni: sottile di fragola, pot-pourri e spezie orientali. Impressioni confermate da un sorso altrettanto raffinato, snello e con con un finale freschissimo al sapore di arancia sanguinella. A tratti estremo nel suo stile in “levare”, ma tutto meno che scarno. Fa solo 13 gradi alcolici.
Da assemblaggio di varie Ghiradas, il naso è di straordinaria finezza: erbe balsamiche, carrube, noce moscata e un frutto molto soave preannunciano un sorso che fa dell’eleganza e dell’ariosità il suo punto di forza, senza però rinunciare a sostanza e spessore. Finale lungo e profondo.
Il più delicato del versante nord, forte di un frutto di rara suadenza – quasi in stile Borgogna – che fa il paio con finocchietto selvatico e fiori in appassimento. Dalla beva quasi compulsiva, ma tutto meno che semplice, anzi decisamente ampio in retro-olfatto, con ritorni mentolati e floreali a profilare una chiusura di straordinaria souplesse.
Scuro, selvatico, ma anche fine e profondo: radici e carrube si fondono con sottobosco e garriga. In equilibrio tra potenza e freschezza, con acidità guizzante e tannini sottili, una punta di evoluzione che non disturba, anzi amplifica il finale lungo e variegato.
Esplosivo il frutto, maturo ma non eccessivo, incorniciato da rimandi alla macchia mediterranea. Coerente in bocca: goloso e avvolgente, ma equilibrato, con tannini leggerissimi e un finale che insiste su toni di erbe spontanee.
La giovane proprietaria ha lavorato al leggendario Domaine de la Romanee Conti. Produce un vino giocato decisamente in sottrazione, con un naso floreale, di frutti rossi freschi e liquirizia, seguito da un sorso agile e aggraziato, con tannini quasi impercettibili e una chiusura suadente tra fragolina, liquirizia e rimandi salini.
Un po’ timido sulle prime, scuro di carrube, erbe officinali e frutti di rovo freschi, quasi nello stile di un buon Priorat. Più austero di altri, ha bisogno di tempo per distendersi, ma è preciso, profondo ed energico.
Da vigne relativamente giovani in zona sud, sprizza freschezza anche vegetale e si distingue per la splendida succosità del frutto, con un sorso che forse non brilla per profondità, ma è fluido e succoso, suadente di fiori ed erbe balsamiche in chiusura. Il nome significa “davanti al monte Gonare” e ne sottolinea lo stile da vino d’altura.
Il più giovane produttore del comune ci regala un’interpretazione fresca e spigliata, da vigne nel quadrante sud, con un naso pepato e vegetale che preannuncia una bocca semplice, ma golosa, con un frutto goloso, ritorni di erbe disidratate che ravvivano la chiusura di buona persistenza.
Radici, ferro ed erbe aromatiche delineano un naso fresco e vivace, seguito da un sorso appena più ricco del previsto, con un tannino appena asciutto e tanta freschezza citrina che dà dinamismo al finale coerente.
Terroso ed animale sulle prime, con un frutto scuro e denso nelle retrovie. Complesso, ma un pelino rustico, acidità e tannino appena polveroso danno vigore al sorso, allentando la presa nel finale amplificato da un pizzico di calore alcolico.
Cuoio, terra bagnata, frutti neri e qualcosa di più fresco e vegetale. Coerente al palato, scuro e con qualche traccia di evoluzione e calore, ma anche abbastanza freschezza e spinta salina per raggiungere un discreto equilibrio.
Dalla zona nord, è scuro e profondo di ciliegia matura, cioccolato e radici. Ampio e avvolgente, ma dotato di buona freschezza e leggera asciuttezza tannica a rinforzo. Il finale, un po’ caldo, gioca su toni boschivi.
L’unico ‘24 è un vino fresco, essenziale, giocato sulla vinosità e sul frutto, con una leggera nota vegetale che ritorna in bocca a profilare un sorso vagamente ruspante, ma contemporaneo, con un finale semplice e scorrevole.
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