Succede molto spesso che i riflettori puntati su un vitigno o una denominazione proiettino un cupo cono d’ombra che ne copre altri spesso di valore non inferiore. La metafora rende bene ciò che è avvenuto nel recente passato in Piemonte. Il successo del nebbiolo attualmente è sotto gli occhi di tutti: sulla nobiltà e il prestigio del vitigno, protagonista in primis del Barolo e del Barbaresco, ovviamente nessuno osa discutere; ma non si può nascondere che ormai da qualche tempo quest’uva ha fagocitato ettari di vigneto che prima erano dedicati ad altre varietà, altrettanto tipiche e tradizionali. Ne ha fatto le spese la barbera, ma soprattutto il dolcetto. Ed è un vero peccato, perché l’uva avrebbe tutte le caratteristiche per piazzarsi nella pole position dei vini contemporanei:
Il dolcetto ha indole piacevolmente gastronomica, l’acidità generalmente moderata rende la beva facile, gli aromi fragranti di prugna e violette in bocca si fondono in un sorso morbido che tende a lasciare uno stuzzicante retrogusto ammandorlato. Generalmente è il primo vino che esce dalle cantine che lo producono, ma alcuni produttori ne propongono versioni vinificate in legno e leggermente invecchiate: del resto all’uva non manca la presenza tannica per reggere il peso del tempo che avanza.
Dolcetto di nome, ma non di fatto. O per meglio dire: il nome del vitigno non ha a che fare con le caratteristiche del vino che se ne ricava, del tutto secco, ma descrive una peculiarità dell’uva stessa, che risulta più dolce rispetto ad altre varietà piemontesi. Altri studiosi, però, ne propongono una diversa etimologia: come spiega il professor Attilio Scienza il nome deriverebbe da «dozzetti», e cioè uve coltivate sui dossi.
Ma quali sarebbero questi dossi? Si tratta delle colline piemontesi, che ospitano il vitigno praticamente da sempre. Le prime testimonianze scritte che parlano di dolcetto risalgono alla fine del Cinquecento, ma l’uva è talmente radicata nella tradizione regionale da far pensare che la sua presenza sul territorio sia molto più antica. Attualmente sono diverse le zone in cui il vitigno viene coltivato: spiccano il Monferrato, che probabilmente ne rappresenta la culla, le Langhe (dove a Dogliani e a Diano d’Alba è tutelato dalla Docg), l’Alessandrino (anche qui troviamo una Docg, l’Ovada), l’Astigiano. Ma il vitigno è presente anche fuori regione: in Liguria, per esempio, dove è coltivato con il nome di ormeasco, ma se ne trovano tracce anche in Lombardia.
La lista che segue raccoglie i nostri migliori assaggi effettuati per le guide Berebene 2025 e Vini d’Italia 2025 del Gambero Rosso: oltre a essere ottimi vini, brillano anche per il prezzo vantaggioso, dato che non superano 20 euro a bottiglia in enoteca e negli shop on line.
Dopo la cessione definitiva della Cantina Vietti al gruppo americano Krause, Elena Penna e Luca Currado Vietti hanno intrapreso con i figli Michele e Giulia una nuova avventura, senza mai abbandonare le natìe e amate Langhe. Possiamo definire il Dolcetto Bricco Lago ’23 un’opera prima. Bel colore rubino brillante, naso che si apre lentamente proponendo sentori di ribes e melograno, bocca di sostanza.
Garabei, il Dolcetto di Diano d’Alba Superiore, è il vino più significativo della Cantina condotta da Giulio e Sergio Abrigo, diplomati alla Scuola Enologica di Alba e subito operativi all’interno dell’azienda di famiglia. Si mette in evidenza per la complessità, la profondità, la pienezza e l’eleganza. Ciliegia, lampone, cenni speziati all’olfatto, mentre il sorso è fresco e saporito, grazie al bel nerbo e a una lieve vena minerale.
Claudio Alario, a partire dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, ha rilanciato la cantina di famiglia con sede a Diano D’Alba. Alle prime bottiglie di Dolcetto, si sono aggiunte anche quelle di Barbera e Barolo. Dei due cru di Dolcetto, Pradurent e Montagrillo, segnaliamo il primo, che beneficia di un anno in più di affinamento. Ha profumi intriganti di tabacco dolce e marmellata di fragole, con bella e salda struttura.
Davide Cavelli rappresenta la quarta generazione di una storia famigliare iniziata nel 1904. Il Bricco Le Zerbe Riserva ’21 è la punta di diamante dell’azienda. Si presenta con un bel colore rosso rubino intenso e brillante; il bouquet fine e classico, con belle note di frutti a bacca nera e cacao, ricorda i grandi Dolcetti. In bocca emerge la parte bella del tannino fitto, con tanta polpa nel finale e notevole lunghezza.
Nel 1958 Giorgio Facchino decide, insieme alla moglie Rosaria, di aprire la propria azienda vitivinicola. Oggi sono Carmine e Teresa, affiancati dai figli Giorgio e Diego, a portare avanti la cantina. Il Poggiobello ’19 è vino di grande concentrazione, dal colore rubino brillante, intenso nella parte fruttata con sentori di sottobosco. Bocca compatta, ancora un po’ severa nello sviluppo tannico, che fa presagire una bella evoluzione futura.
Come al solito si conferma il Dolcetto il cavallo di battaglia della cantina Tacchino. In particolare, tra gli assaggi di quest’anno, abbiamo apprezzato il Dolcetto d’Ovada ’22. Affascinante il naso, che spazia da note di more e cacao, per arrivare alla mandorla amara e un tocco di canfora a dare complessità. Grande struttura e tannini fitti, finale lungo e di carattere, che solo il tempo saprà domare.
Oltre a essere il miglior assaggio della cantina, l’Ovada Convivio ’22 viene anche offerto a un prezzo più che amichevole. Il naso profuma di frutto nero fragrante e leggere note di cacao. La bocca è caratterizzata da una bella trama tannica sorretta da una grande polpa, terminando in un finale lungo.
Celso Abbona ha messo sempre al primo posto il territorio di Dogliani, lavorando alla valorizzazione del Dolcetto. Ed oggi, a dargli manforte, ci sono anche Marziano e le due figlie Mara e Chiara. Incredibile beva per il Dogliani Papà Celso, con profumi di more e mandorla amara. In bocca un’acidità vibrante invoglia al sorso, completata da una struttura equilibrata e un finale lunghissimo.
Dall’azienda condotta da Luigi Abbona e famiglia, proponiamo un Dolcetto che quest’anno ha raggiunto le nostre finali per i Tre Bicchieri. Questo Dogliani Santa Lucia ’23 si presenta con colore rubino fitto e brillante. Il bouquet è intenso, con belle note di mora e leggeri accenni di cioccolato, di grande finezza, complessità e carattere; bocca potente e di bel corpo, con tannini fitti, molto lungo e caratteristico.
Il Dogliani Valdibà ’23 di Osvaldo Barberis si presenta con note di more, mandorla amara e cioccolato, è fresco, ricco di frutto e con tannini morbidi.
È cambiato molto da quando Orlando Pecchenino ha cominciato la sua attività, ormai quarant’anni fa: allora andavano di moda vini molto concentrati, con abbondante uso dei legni. Ora lo stile si è smussato, come dimostra il Siri d’Jermu ’22, dal colore rubino fitto e vivo. Naso con ampi aromi di frutti neri maturi, cacao e spezie. È fine e complesso, con bocca piena di notevole struttura e tannini vivi, con finale lungo e fresco. Evolverà ancora.
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