
La malvasia è un’uva senza confini, ma sulle Eolie si è costretti a fare qualità con quel che c’è, visto che tutto il vigneto a disposizione non supera i 115 ettari. Malvasia senza confini è il nome della due giorni di lavori inter istituzionali promossa dalla Camera di Commercio di Messina e da Mirabilia network, in collaborazione con Ais Sicilia. Al centro degli incontri, il futuro dell’uva regina dell’arcipelago eoliano, la Malvasia di Lipari, vitigno che ha definito la storia enologica di questi territori con un passito e che, da una ventina di anni, ne sta ridisegnando il percorso attraverso la versione secca.
Pare un po’ paradosso che un’uva tanto nomade – solo in Italia se ne contano quasi una ventina di tipi – sia così risicata sulle “sette sorelle” a nord di Messina: 115 ettari di vigneto, di cui un’ottantina solo sull’isola di Salina, per una produzione che si aggira intorno ai 400 ettolitri. Proprio su questo piccolo pezzo vulcanico di mondo tuttavia è nata una delle prime doc siciliane, la Malvasia delle Lipari Doc, anno 1973. Dopo più di 50 anni c’è voglia di ripensarla, adeguarla ai tempi climatici e ai gusti del presente (si parla anche di una possibile Doc Eolie), senza mettere da parte una storia secolare che ha reso in particolare i salinari – prima dell’avvento della fillossera – ricchi mercanti di mare. Ma intanto si lavora anche alla valorizzazione della versione secca.
Carlo Hauner in cantina
Capire chi tra i produttori di Salina sia stato il primo a etichettare una malvasia secca è un po’ lo sport dell’isola. Nino Caravaglio dell’omonima azienda di Malfa rivendica il primato con la sua Infatata, nata nel 2010. L’azienda Virgona risponde con un vino nato nel 2006 che, tuttavia, non era fatto con il cento per cento di malvasia. Anche Salvatore d’Amico, con azienda nel comune di Leni – siamo sempre sull’isola di Salina che di comuni ne conta tre – afferma di aver imbottigliato un vino secco a cavallo tra il 2005 e il 2006, a causa di una partita d’uva non soddisfacente per farne passito.
Aldilà delle rivendicazioni, va detto che da circa vent’anni la versione secca del più noto passito isolano sta trainando l’economia vitivinicola delle Eolie. Al punto che i produttori consorziati – una dozzina, ma con ricaduta sugli altri grazie all’erga omnes – stanno lavorando affinché l’Igt Salina sparisca per fare posto alla Doc Salina, riconoscendo così prestigio e tutela anche ai vini secchi e fermi, in particolare ai bianchi (l’Igt Salina prevede anche vini rossi e rosati).
Sul progetto è impegnata anche la Camera di Commercio di Messina con i marchi registrati Malvasia senza confini e MEdoc, riferito alle tre denominazioni siciliane Malvasia, Mamertino e Faro, ed è il presidente Ivo Blandina, a spiegare come: «Siamo convinti che i vini di queste aree siano un volano perfetto per promuovere l’enoturismo e ampliare in particolare la stagione turistica. I cambiamenti sostanziali sono quelli che derivano dalla capacità dei produttori di fare sempre più qualità e diversificare i prodotti. Un momento in cui i vini dolci hanno perso appeal un po’ in giro per il mondo, i produttori eoliani hanno deciso di vinificare una Malvasia secca.
Con la Doc Salina si punterà ad altri mercati, soprattutto all’estero e il ruolo delle istituzioni è quello di promuovere non solo il vitigno, ma anche quello che c’è intorno. Quindi la capacità dei produttori, il territorio, l’accoglienza turistica, accoppiata alle eccellenze della gastronomia. Nell’arco del prossimo anno si lavorerà per capire se sia il caso di far rientrare le malvasie secche nella doc già esistente, ampliandola, o se nascerà una seconda doc, appunto la Doc Salina. Se ne discuterà il prossimo 20 settembre in un convegno sul tema, mentre il lavoro di riscrittura del disciplinare sarà affidato a Carlo Panont che si è già occupato di Doc Sicilia e Doc Etna.
tasting di Malvasia delle Lipari secca
Ovviamente il cambio della sola dicitura non basta, bisogna metter mano agli articoli del disciplinare per legarli al presente della viticoltura delle isole. Le rese innanzitutto: Salina e le altre isole non sono più terroir da quantitativi importanti (nel 1800 si producevano circa 10mila ettolitri, oggi ci si ferma a 400), sono areali vitivinicoli naturalmente biologici, dove l’ecosistema è reso complesso anche da altre produzioni, in primis il cappero, e, sull’isola di Salina, dall’importante presenza dei boschi di Monte Fossa delle Felci e Monte dei Porri.
«In un momento storico in cui si registra un calo dei consumi di vino non ha più senso prevedere – come da disciplinare – una resa di 160 quintali per ettaro». È il vicepresidente del Consorzio Carlo Hauner a parlare, il quale sottolinea come queste rese siano totalmente innaturali, anche alla luce di annate difficili come la 2023 dove la peronospora ha falcidiato quasi interamente la vendemmia. «Nessuno produce così tanto sull’isola – continua il produttore – così come non ha senso comprare un 15 per cento di uve fuori dal perimetro dell’arcipelago per fare l’Igt».
Altro colpo di spugna pare spetti alla Malvasia liquorosa, un vino previsto fin dal 1973 ma che nessuna delle realtà vitivinicole ha mai proposto, come sottolinea Calogero Marino di Virgona: «Che senso avrebbe avuto svilire, con l’aggiunta di alcol, un vino che ha un’eleganza innata? Lo si capisce già in pianta: la nostra malvasia è un’uva delicata, dai grappoli spargoli.
Luca Caruso dell’azienda Eolia
Chi non ha mai fatto neanche Malvasia passita sono Luca Caruso e Natascia Santandrea, proprietari dell’ultima azienda nata a Salina, Eolia. La loro gamma è fatta di vini bianchi e rossi secchi, al momento quindi tutti Igt. Ovviamente tifano a favore della Doc Salina: «Non escludo che un giorno faremo anche un passito – spiega Caruso – ma per adesso, anche per una forma di rispetto nei confronti di chi il vino dolce lo fa da sempre e bene, vogliamo aspettare e focalizzarci sui secchi, in particolare sui cru di Malvasia secca, andando a zonare i suoli e i microclimi, a conoscere le stratificazioni vulcaniche, ma anche argillo-calcaree che a Salina sono presenti, a impiantare vigneti a 500 metri di altezza per tornare a fare una viticoltura “di montagna” come un tempo si faceva sull’isola.
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