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Modelli a confronto

"Vini Piwi e dealcolati spostano la viticoltura verso un modello industriale". L'enologo Adriano Zago parla del futuro del vigneto Italia

L'esperto di biodinamica spiega perché ancor più dell'industria tout court teme quella via di mezzo molto diffusa tra modello artigianale e uniformità: "Un dinosauro che lavora senza identità"

  • 05 Giugno, 2025

La vigna a maggio profuma. Pare un assunto un po’ scontato perché è normale che una pianta che fiorisce emetta un odore. Eppure una passeggiata tra i filari non è sempre l’esperienza più appagante che si possa fare. Spesso si percepiscono sentori di zolfo. Nella vigna-giardino di Adriano Zago invece le piante profumano ed è un odore che sa di vegetale e di balsamico. L‘agronomo ed enologo veneto ha presentato il suo primo vino prodotto in 7mila metri quadrati di vigneto all’Impruneta, parte collinare della città di Firenze, esattamente località Monte Oriolo. È un rosato che ha dentro sette uve diverse, tutte toscane, vendemmiate e vinificate assieme. Il colore di questo vino d’ora in poi, spiega Zago, sarà come un semaforo, racconterà la diversità che governa la sua azienda, Podere Mastrilli: oggi è rosa; potrebbe essere, un giorno, bianco e un altro anno ancora rosso.

Non è caos, è, per l’appunto, diversità per questo 47enne, figura di spicco del panorama dell’agricoltura biodinamica, con un percorso professionale che unisce competenze tecniche, esperienze internazionali e una visione olistica dell’agricoltura. Ha all’attivo infatti oltre sessanta collaborazioni con aziende in Europa e negli Stati Uniti. Lo sforzo anche da parte di chi lo incontra è quello di non limitarsi a fare domande su come “ si fa il vino”, ma di entrare in una visione sistemica, di rigenerazione, di complessità, di apprendimento, di relazione tra elementi viventi e non, tra esseri umani, animali, piante, suolo, e perfino strutture sociali e aziendali. Proviamoci.

Alberi e vigne a Podere Mastrilli (ph. Ennio Celli)

Dal suo osservatorio sistemico cosa ci dice del vigneto Italia? Qual è il suo stato di salute?

Se adottiamo una lente molto ampia – e forse anche un po’ provocatoria – direi che, in termini di biodiversità, sensibilità ambientale e consapevolezza agronomica, il vigneto Italia oggi sta molto meglio rispetto a vent’anni fa. Per varie ragioni e attraverso percorsi differenti, la stragrande maggioranza dei viticoltori ha cominciato a integrare tecniche, approcci e progettualità che prima erano molto meno presenti. Questo è visibile, ad esempio, nelle molecole che vengono utilizzate in campo, ma lo si può notare anche tra i produttori più industriali. Certo, a volte il cambiamento è spinto da obblighi imposti dall’Unione Europea o dai consorzi, o nasce dal ricambio generazionale, oppure dal semplice adattamento ai tempi che cambiano. Ma in ogni caso, il miglioramento c’è stato. Se poi usciamo dalla visione macro e iniziamo a osservare con una lente più fine, diventa evidente – forse più di prima – la segmentazione del settore. Esistono livelli molto diversi tra loro: da un lato, c’è un mondo industriale sempre più focalizzato sulla risposta alle esigenze di performance, sia qualitative che economiche, del prodotto.

Direi che ciò che dice è confortante. C’è quindi un impegno che cresce da parte di chi produce. Ma in chi consuma c’è altrettanta sensibilità? Perché il grosso del mercato del vino è mosso ancora da chi, diciamolo, ha esigenze basiche.

Anche il consumatore si sta muovendo. In fondo, mercato e domanda vanno sempre assieme: l’uno influenza l’altro. Oggi il consumatore ha una sensibilità leggermente migliore rispetto al passato, anche nel mondo del vino. C’è una ricerca condivisa, da parte di produttori e consumatori, di un equilibrio tra semplicità e qualità. Le risposte richieste sono magari ancora semplici, ma con un livello qualitativo un po’ più alto rispetto a vent’anni fa. Se vogliamo usare un’icona, pensiamo al Tavernello. È facile da citare, ma serve per capire. Il Tavernello di vent’anni fa, per esempio, aveva un approccio comunicativo e pratico molto diverso da quello di oggi. Anche in quel tipo di vino si rileva un alleggerimento nella gestione agronomica e di cantina: si usano prodotti meno aggressivi, meno pericolosi. E anche il consumatore, pur senza stravolgere le proprie abitudini, è mediamente più contento. Magari il gusto percepito resta lo stesso, però resta il fatto che anche in quei segmenti c’è una piccola evoluzione. Non tanto nei valori profondi magari, ma nelle performance del prodotto sì.

Usciamo dal segmento industriale del vino ed entriamo in quello delle aziende che si definiscono artigianali, e talvolta anche naturali. È una zona di maggiore comfort per lei?

Per me è semplice spiegare quello che faccio: si chiama agricoltura biodinamica. Non è biologica, non è semplicemente sostenibile — è biodinamica, punto. Non c’è bisogno di aggiungere altro. È una pratica definita, con un’identità chiara, ed è su quella che mi concentro. La biodinamica è un metodo. Ovviamente ci sono delle contaminazioni interessanti e anche necessarie, con l’agroecologia, l’agroforestazione, la permacultura. Tutte queste pratiche sono affini e con esse si può dialogare, ma non identificano il metodo. Sono alleate, non definizioni. I vini naturali, artigianali, biologici non hanno, invece, a oggi un metodo riconosciuto. Se devo trovare una linea comune è quella della voglia di differenziazione, la corsa all’espressione personale, che è l’opposto del mondo industriale, dove domina l’uniformità. Però attenzione: c’è anche un “mondo di mezzo” molto ampio. E quello, per certi versi, mi spaventa più del mondo industriale.

E quale sarebbe?

È un mondo più sostanziale di quanto si pensi, fatto di tantissime aziende che sembrano lavorare in incognito. Parliamo di realtà frammentate: 30-40 ettari da una parte, 10 ettari da un’altra, magari un po’ di uva conferita a una cantina sociale, un po’ vinificata in proprio, un po’ venduta sfusa. È un mosaico, e dentro questo mosaico c’è una buona parte del vigneto Italia. Una viticoltura poco professionale, o comunque poco intenzionale. E secondo me è lì che si gioca la vera incognita. Questo “dinosauro” – come mi viene da chiamarlo – si muove tra due sponde, quella industriale e quella artigianale, ma non si sa bene dove finirà. Eppure è una parte consistente, strutturale, dell’ossatura della viticoltura italiana.

Fiori tra i filari di Podere Mastrilli (ph. Ennio Celli)

 

Insomma un’enorme quantità di attori in campo. Lei come la legge questa sovrabbondanza? Siamo troppi? E cosa comporta questo dinamismo, anche alla luce dei nuovi interrogativi su sostenibilità e nuove dinamiche economiche?

Non è facile progettare nel presente con la lente dell’attualità. Per questo negli ultimi anni mi sono concentrato molto sul lato strategico, perché strategia significa pianificare un’azienda per i prossimi 20 anni. Questo comporta lavorare sui pilastri fondamentali: cosa piantare, come trasformare il prodotto, dove venderlo, e in definitiva, chi si vuole diventare come azienda. È un lavoro difficile, ma anche molto stimolante. Mi piace lavorare con aziende che si interrogano profondamente sulla propria identità e leadership, perché condivido quel pensiero che “siamo piccoli, artigianali, il mondo là fuori è difficile, quindi dobbiamo diventare sempre più bravi”. Io li aiuto a definire la carta d’identità : i valori, la mission, la gestione del passaggio generazionale. Discorso che vale anche per i rischi climatici: preparo, con la mia squadra, le aziende a più scenari negativi e sfidanti. E l’esperienza, ormai, mi insegna che rispondono meglio quelle aziende dove si aziona una intelligenza collettiva, sedersi tutt’intorno a un tavolo e dire “ok cosa ci preoccupa davvero?”. Nel mondo del vino, d’altronde, di personaggi carismatici che assumono la leadership ce ne sono sempre meno. E aggiungo anche però che si iniziano a vedere i limiti di una mono direzione manageriale.

Che spazio occupano, nella sua visione sistemica della viticoltura, i vini dealcolati?

Per quanto mi riguarda sono un prodotto in più nel paniere dell’industria vinicola e un’opzione in più per raggiungere un certo tipo di consumatori, ma appartiene chiaramente al mondo industriale. Per come è strutturato oggi il processo di dealcolizzazione, non può essere considerato parte di un’agricoltura artigianale o biodinamica. Quanto al consumo, io vedo i dealcolati rivolti soprattutto a un pubblico curioso, ma non necessariamente a chi ha deciso di smettere di bere. Chi sceglie di non bere vino, spesso lo fa per motivi che vanno oltre l’alcol: ha detto “no” al vino come simbolo, come mondo. Quindi non è scontato che voglia un prodotto che gli assomigli.

E cosa ne pensa dei vitigni Piwi?

Ho molte riserve. Per me, l’uso dei vitigni Piwi – e ancor più delle tecniche Tea (tecniche di evoluzione assistita) – porta la viticoltura verso un modello industriale, in cui l’agricoltore perde il controllo diretto sulla selezione genetica, che storicamente è sempre stata parte della sua esperienza, osservazione e cultura. Delegare totalmente questo processo a laboratori esterni significa uscire dal campo agricolo e culturale, per entrare in quello brevettato e proprietario. I Piwi rispondono bene alle logiche della viticoltura industriale, che ha bisogno di varietà super produttive e facili da gestire. È comprensibile, ma serve onestà intellettuale: dire che servono all’ambiente è un alibi. In realtà, aiutano soprattutto chi vuole semplificare il lavoro e abbassare i costi. E oggi sono proprio le grandi industrie del vino, come quelle del Prosecco, che stanno investendo per creare versioni resistenti dei vitigni più venduti. Dal punto di vista tecnico, i Piwi non sono il “bene assoluto” che alcuni raccontano. Le varietà resistenti perdono efficacia nel tempo, tanto che ora si preferisce parlare di “tolleranti”. È una resistenza instabile: i patogeni si evolvono, come è successo con l’oidio. Inoltre, a oggi non esistono grandi vini da Piwi. Alcuni bianchi si difendono, ma la qualità complessiva è ancora bassa. Quello che mi colpisce è che molti piccoli viticoltori, anche bio e biodinamici, si siano fatti sedurre dall’idea che “trattare meno” significhi automaticamente “fare meglio”. Ma non è così: un bravo viticoltore è colui che osserva, interpreta, lavora con consapevolezza sul campo, non chi cerca scorciatoie tecniche.

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<<<< Questo articolo è stato pubblicato su Trebicchieri, il settimanale economico di Gambero Rosso.

Questo articolo è stato pubblicato su Trebicchieri,
il settimanale economico di Gambero Rosso

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