La provocazione la lancia Robert Joseph, giornalista enogastronomico nella prima parte della sua vita e produttore nella seconda: «Se un cameriere al ristorante ci venisse a dire che la carne quel giorno non è di buona qualità, ma che la cucina promette di fare di tutto il possibile per valorizzarla al meglio, come reagiremmo? Non preferiremmo ordinare altro? E allora perché accettiamo di bere vini prodotti in annate pessime?!».
Sulle annate si è sempre basata gran parte della comunicazione di aziende e consorzi, ed è innegabile che l’andamento stagionale sia elemento imprescindibile per capire un vino. La cosiddetta vintage variation è croce e delizia per appassionati e collezionisti: rientra tra i fattori che rendono il vino diverso da altre bevande ricavate da materie prime che, a differenza dell’uva, consentono approvvigionamento e produzione continua. Il problema, però, è che nemmeno il più grande produttore sulla faccia della terra può mettere in bottiglia un prodotto qualitativamente identico ogni anno. E se in alcuni territori queste altalene qualitative si riflettono sui prezzi che salgono e scendono in base al giudizio della critica sull’annata, in altri – compresa la maggioranza di quelli di punta in Italia – la variazione è minima o nulla.
Riccardo Pasqua e il wine edicator Filippo Bartolotta; a destra il giornalista Robert Joseph
Ma siamo sicuri che, in quest’epoca di rottura dei dogmi, i grandi vini fermi debbano essere per forza legati a una singola annata? «Questo principio ha portato i produttori a commercializzare – e i consumatori ad acquistare – molti vini mediocri», spiega Joseph. Che rilancia: «Ho avanzato diversi anni fa l’idea di produrre Bordeaux multi-vintage per ovviare al problema, ma ho incontrato lo scetticismo e le resistenze di un mondo produttivo troppo fossilizzato su schemi prestabiliti. E così, dopo alcuni anni, ho deciso di riprovarci in Georgia con l’aiuto di alcuni artigiani locali».
Il suo bianco georgiano, K’avshiri, è stato uno dei protagonisti di un’insolita masterclass a Vinitaly 2025: la prima al mondo a portare in scena sei vini multi-vintage da altrettante nazioni diverse. Organizzata da Pasqua, colosso del vino veronese che ha abbracciato l’idea del blend di annate con il suo bianco di punta, per accendere un faro su di una categoria che in Italia è ancora all’anno zero – anche se da sempre si può aggiungere fino al 15% di altre annate in ogni vino millesimato: lo sapevate? – ma che potrebbe essere la risposta ad alcune sfide cruciali.
Gonzalo Iturriaga de Juan di Vega Sicilia collegato durante la degustazione multivintage a Vinitaly 2025
Basta guardare l’andamento degli ultimi tre millesimi per rendersene conto: 2022, 2023 e 2024 sono stati anni difficilissimi per i vignaioli in molte parti del mondo. «Siamo passati alla seconda fase del cambiamento climatico – spiega Joseph – Non ci si preoccupa più solo dell’aumento delle temperature, ma anche di situazioni estreme come siccità, inondazioni, incendi, gelate e grandinate: tutti eventi che possono compromettere interi raccolti». Se è vero che i produttori sono sempre più abituati ad affrontare queste peripezie, è anche vero che assemblare più annate potrebbe essere utile per avere più costanza qualitativa e quantitativa: a maggior ragione se si considera che il riscaldamento globale favorirà impianti in zone sempre più al margine. Non a caso la tradizione di produrre vino sans année ha attecchito in zone dal clima notoriamente estremo, dove replicare lo stesso stile in ogni annata sarebbe quasi impossibile, soprattutto su larga scala.
La Champagne ne è l’esempio più lampante: «Il modello champenoise è estremamente efficace: perché non applicarlo in qualunque altra regione? – suggerisce Joseph – Loro ci insegnano che è giusto fare vino d’annata, certo, ma solo quando si è pienamente convinti del risultato. Negli altri casi, invece, si fa un multi-vintage.
Nel mondo esistono anche vini fermi con una storia importante alle spalle ottenuti in questo modo, sebbene siano l’eccezione e non la norma nei loro luoghi d’origine. Primo tra tutti l’Unico Reserva Especial di Vega Sicilia, rosso di punta della più celebre bodega iberica. «Unico Reserva Especial nasce da parcelle che prendono grandine o gelate in almeno un’annata su tre: sarebbe impossibile produrlo ogni anno senza andare incontro ad alti e bassi», spiega Gonzalo Iturriaga de Juan, enologo della cantina spagnola. La tecnica di base, per quanto sempre più rara, è molto tradizionale: storicamente, nelle regioni vinicole chiave della Spagna, ogni azienda produceva una Riserva Especial: un vino cioè che rappresentasse la crème de la crème della produzione aziendale a prescindere dall’annata.
Diverso, invece, il ragionamento dietro ai due vini dal Nuovo Mondo. Il Napa Valley Red Cain Cuvee di Cain è ottenuto da un blend di uve dal fondovalle e da zone remote e pedemontane, vergini fino al momento dell’impianto delle prime vigne di Cabernet Sauvignon e Merlot aziendali nei tardi anni ‘80. «Non è un metodo solera, ma un blend di due annate e diversi vini, scelti per i loro aromi brillanti, l’acidità e un corpo più leggero, con l’intento di fornire un vino versatile, adatto al cibo e che trasmetta la personalità distinta del Vigneto Cain», spiega il direttore tecnico Chris Howell. Insomma, qualcosa che trascende gli schemi classici del vino californiano.
Anche Caballo Loco di Valdivieso, vino cult cileno, è pensato per «rompere i paradigmi». Nasce quasi per caso, da un esperimento portato avanti dall’enologo neozelandese Brett Jackson per mere questioni logistiche, ma da diversi anni viene prodotto con l’idea specifica di essere un’espressione di sintesi dell’intera nazione, contenendo non solo fino a sette annate diverse, ma anche uve provenienti da varie regioni.
Rientrando in Italia, l’idea alla base dell’Hey French della veronese cantina Pasqua è invece esattamente agli antipodi: il primo bianco multi-vintage tricolore proviene da un singolo vigneto. «Siamo sempre stati considerati un’azienda rossista e nel 2013, dopo aver rilevato una parcella di 5 ettari nel cru Monte Calvarino di Soave, abbiamo sentito l’esigenza di produrre qualcosa di diverso dal solito Soave Classico», ci spiega il Ceo Riccardo Pasqua. Da qui la decisione di scegliere la strada del multi-vintage e sfoggiare un’etichetta sbeffeggiante che recita You could have made this but you didn’t (potreste averlo creato voi, ma non l’avete fatto). Il vino – a base Garganega con piccole aggiunte di Sauvignon e Pinot Bianco – è ancora un work in progress, ma le due edizioni presentate (su quattro totali) sono accomunate da una combinazione di evoluzione olfattiva e freschezza più tipica degli spumanti che dei bianchi fermi. «Le annate più vecchie danno complessità e cremosità, quelle più giovani tensione e potenziale d’invecchiamento», afferma Pasqua.
Chiaramente la produzione di vino multi-annata ha anche degli svantaggi: innanzitutto i costi di produzione più alti. «Costruire una library di annate comporta un investimento economico non da poco», confessa Pasqua. Non tutti possono permetterselo, ed è anche per questo che in Italia stenta ancora a decollare. «Eppure qualcosa si sta muovendo: non siamo più gli unici a seguire questa strada», aggiunge infatti il manager.
L’altro problema è che, alla fine dei conti, le imperfezioni derivanti dalle bizzarrie climatiche sono un elemento caratterizzante. «La maggior parte dei consumatori pensa automaticamente che assemblare più annate sia un tentativo di standardizzazione. Ma ogni vino mostra qualche segno distintivo che serve a differenziare un imbottigliamento dall’altro», rimarca Howell. E a ricordare che assemblaggi di annate diverse danno risultati diversi, aggiungiamo noi. Le parole ricorrenti sono collezione ed edizione. Idee nate proprio in Champagne.
«La maestria dell’enologo risiede proprio nell’unire le caratteristiche delle singole annate invece di appiattirle, ottenendo un prodotto più costante, ma mai uguale – rileva Pasqua – L’assemblaggio, insomma, non deve essere un escamotage, ma un modo di arrivare a un equilibrio che i singoli vini difficilmente riuscirebbero a raggiungere».
<<<< Questo articolo è stato pubblicato su Trebicchieri, il settimanale economico di Gambero Rosso.
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