Stelle cadenti. Forse stelle giร cadute. A rilanciare il tema del fosco futuro delle insegne che fanno fine dining รจ stato Arrigo Cipriani, patrรฒn del veneziano Harryโs Bar, che recentemente in unโintervista ad Aldo Cazzullo pubblicata sul Corriere della Sera, ha sentenziato: โGli chef stellati si estingueranno da soli, come i dinosauriโ. Ohibรฒ. E perchรฉ mai? Ma certo, โperchรฉ producono sapori artificiali, che non conosci, non ricordi e a cui non ti affezioni. E poi vogliono farti mangiare quel che decidono loro. Prendi il menu degustazione e ti pare che lo chef ti stia fissando. Ti senti sotto esame: non sei tu che giudichi lui; รจ lui che giudica teโ.
Arrigo Cipriani. In apertura i Bottoni di chef Enrico Bartolini
Al netto di un sorprendente tasso di populismo, che puรฒ essere perdonato a un signore di 92 anni che qualcosa nella vita ha fatto (e che comunque non ha fondato certo la sua carriera imprenditoriale sul fast food), il tema cโรจ tutto. Negli ultimi venti anni in Italia si รจ verificato un rimarchevole paradosso. Il numero di โmacaronโ distribuiti per la Penisola รจ praticamente raddoppiato: nellโedizione 2004 della guida rossa si contavano 210 ristoranti insigniti del simbolo, 4 con tre stelle, 20 con due stelle e 186 con una, per un totale di 238 macaron. Ventโanni dopo i ristoranti โdecoratiโ sono 395 (13 con tre stelle, 40 con due e 342 con una) e le stelle totali 461. Ma mentre questo accadeva, mentre passava la linea del โtodos caballerosโ, andava in crisi il modello di ristorazione a cui la distinzione della guida Michelin fa riferimento e che per certi versi essa stessa contribuisce ad alimentare.
Un poโ questo smarrimento del modello Michelin รจ insito nei criteri stessi con cui sono assegnate le stelle che, come spiegano da Parigi, premiano esclusivamente โuna cucina di eccellenzaโ, basata su โqualitร degli ingredienti, armonia dei sapori, padronanza delle tecniche, personalitร dello chef espressa nella sua cucina e, cosa altrettanto importante, coerenza nel tempo e dellโintero menuโ. Altri fattori come lโarredamento, lo stile del ristorante, lโinclusivitร e ancora peggio il servizio non hanno alcuna rilevanza ai fini dellโassegnazione della stella Michelin. Un enorme limite manifestatosi drammaticamente nel momento in cui si stava imponendo una concezione olistica del ristorante, come luogo in cui stare bene a tutto tondo, e in cui una sala di alto livello รจ considerata in grado di segnare il destino di un pasto quasi quanto il talento dello chef. Regole peraltro autocontraddette dalla circostanza che poi, almeno in Italia, insegne di ottima qualitร con un lignaggio poco nobile, come certe pizzerie che hanno rappresentato per certi versi la vera filiera dโavanguardia degli ultimi anni, o come le trattorie contemporanee che hanno creato nuovi stilemi nellโesperienza del pasto, la stella la osservano ancora con il telescopio.
Chef Enrico Bartolini al Mudec di Milano. Foto di Paolo Picciotto
Ci sono due motivi di ripensamento della sostenibilitร di un sistema che spinge tutti gli chef di una qualche ambizione a lavorare per anni solo in funzione del raggiungimento della stella, come obiettivo da perseguire a qualunque costo. Il primo รจ dato dagli aspetti economici, il secondo da fattori umani, legati al cambiamento degli stili di vita.
In termini economici รจ ormai chiaro che il modello โstellatoโ non funziona. I ristoranti stellati in Italia sono meno dello 0,2 per cento del totale delle insegne, quindi rappresentano una minoranza infinitesimale, anche se assai influente.
In termini di fatturato (dati del 2022), i locali con la placca rossa allโingresso fatturano 327 milioni annui: questo significa che se tutte insieme fossero unโazienda (la Fine Dining SpA) sarebbero al 556esimo posto della classifica italiana delle imprese per dimensione. Questo malgrado uno studio di qualche anno fa abbia dimostrato che lโassegnazione della prima stella porta a un aumento medio del 50 per cento del fatturato di un ristorante, la promozione alla seconda un ulteriore salto del 18,7 e lo sbarco nel Gotha delle terza garantisca un +25,6%. Insomma, un ristorante che ogni anno salisse di categoria aumenterebbe gli incassi del 223,6 per cento in tre anni a fronte perรฒ di un enorme aumento degli sforzi in termini di food cost, personale, strumentazione, tecnologie, marketing e ufficio stampa, designer, implementazione di pratiche sostenibili e ricerca per mantenere lo standard avanguardista.
Di questa strettoia i grandi chef sono perfettamente consapevoli.
Chef Anthony Genovese al lavoro nella cucina de Il Pagliaccio a Roma
Enrico Bartolini, lo chef piรน stellato dโItalia con 13 medaglie appuntate in nove ristoranti e il secondo al mondo, in una recente intervista su Esquire si รจ detto consapevole del fatto che un ristorante fine dining si rivolge piรน o meno al 3 per cento della popolazione, stima probabilmente generosa se รจ vero che uno stellato secondo i dati del 2023 poteva vantare 6.400 clienti lโanno, per un totale di 2,53 milioni di clienti lโanno per lโintera galassia. Probabile perรฒ che il grosso di questi โutenti uniciโ in realtร sia costituito da una massiccia minoranza di appassionati e persone facoltose, come notava Anthony Genovese del Pagliaccio di Roma in unโintervista alla Cucina Italiana: โNoi chef ci siamo rinchiusi in una torre dโavorio anche per colpa dei media e alla fine siamo sempre a dividerci lo stesso numero di appassionatiโ. Parole che dร nno il senso di unโoccasione mancata. La cucina gourmet non รจ riuscita a capitalizzare la grande popolaritร acquisita negli ultimi decenni grazie alla trasformazione di pochi chef in star televisive e social: avrebbe potuto conquistare nuovi clienti, ha ingrassato solo una narrazione ipertrofica. Anzi, lโaumento spasmodico dei prezzi, con menu degustazione sempre a tre cifre, ha forse ulteriormente allontanato il pubblico medio (e spesso anche quello medio-alto) dai ristoranti stellati. Lโalta cucina รจ come la Sora Camilla del detto romano, che โtutti la vรฒnno ma nessuno la pijaโ. La traduzione รจ probabilmente inutile.
Eppure i โdinosauriโ di ciprianiana definizione continuano a sognare il trionfale sbarco su Jurassic Park. Ognuno anela quellโindotto fatto di scuole di cucina, libri, tv, consulenze che indubbiamente consente a molti chef di pareggiare i buchi in bilancio. Il ristorante diventa cosรฌ uno showroom in perdita perenne in cui esibire i gioielli di famiglia da mettere a reddito in altro modo. Ma questa strada รจ riservata a pochi. La gran parte dei 342 monostellati sono bravissimi professionisti sconosciuti anche agli addetti ai lavori e non in grado di muovere le masse. E poi anche dedicarsi ad altro ha un costo per gli chef e per i loro ristoranti. Lโexecutive deve assentarsi per lunghi periodi, perdere di vista la sua personale ricerca, deve addestrare e remunerare i suoi collaboratori perchรฉ rispettino gli standard anche in sua assenza, avere un sous chef di cui ha totale fiducia, e alla fine scontentare i clienti che non lo trovano in cucina.
Una tavola del 10_11 di Ferragamo a MIlano
Per questo sempre piรน ristoratori rinunciano a rincorrere la stella anche se avrebbero il fisico per farlo. Di recente il gruppo Ferragamo, proprietario del sontuoso hotel Portrait al centro a Milano, ha accantonato il progetto iniziale di fare del ristorante 10_11 una destinazione fine dining. Il bistrot aperto inizialmente per preparare il terreno sbiglietta che รจ un piacere e quindi perchรฉ complicarsi la vita? Un esempio tra decine di altri in tutta Italia di questo downgrade naturale.
Anche allโestero succede lo stesso. Lโannuncio con congruo anticipo della chiusura del Noma di Copenaghen per lโinsostenibilitร economica del progetto a inizio del 2023 scatenรฒ un dibattito in Italia e nel mondo da cui emersero tutte le criticitร di un mondo perennemente sullโorlo di una crisi di nervi. La chef Geneviรจve Yam confessรฒ su Bon Appetit come il fine dining avesse provato a ucciderla nel momento in cui, dopo una diagnosi di una fibromialgia indotta dallo stress, capรฌ che avrebbe dovuto smettere per non lasciarci le penne. O la stella o la vita.
I ristoranti stellati sono di fronte a un circolo vizioso. Da un lato devono alzare gli standard per continuare a essere sostenibili, creativi, innovativi, dallโaltro esiste una spinta alla riduzione dei giorni di servizio e degli orari per non far fuggire quel poco personale che non lโha ancora fatto. La risposta sta nellโaumento dei prezzi, ma questo tiene alla larga il pubblico. Che da parte sua ha manifestato negli anni chiari segnali di prediligere una ristorazione piรน agile, in cui la quarta parete tra cucina e sala รจ abbattuta, in cui piรน dello storytelling, dei tecnicismo, della gestualitร , contano il coinvolgimento, la condivisione, lโinterazione, il divertimento. Anche perchรฉ, vogliamo dircelo una volta per tutte?, il ristorante fine dining รจ spesso anche noioso in un modo intollerabile. E il cliente รจ stanco di sentirsi inadeguato o di subire la sottile arroganza di certi chef e certi maรฎtre non proprio ร penser.
Il fine dining del futuro sarร quindi un luogo originale, onesto, ricco di valori, in cui la connessione tra il territorio e il piatto sia evidente. Un hotspot sostenibile, stagionale, salutare e locale, che guardi alla felicitร del cliente senza accigliati nozionismi. Facile, casual, inclusivo, accogliente, flessibile, multisensoriale, in cui il cliente venga accolto da un personale riposato e bendisposto. Un laboratorio che innesterร degli elementi del fine dining sia in termini di tecniche gastronomiche sia di attenzione al cliente su un palinsesto differente, piรน quotidiano. Perchรฉ รจ vero che il ristorante di alta cucina sarร sempre lo specchio delle disuguaglianze che non moriranno mai (anzi, semmai si esaspereranno), un luogo โriservato ai potenti, oggetto del desiderio eterno delle classi medie emergentiโ, come scrive il critico spagnolo Ignacio Medina. Ma i potenti sono sempre meno, e gli altri, i non potenti, non sempre hanno voglia di una brioche al posto del pane.
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