L'ultimo avamposto della Dolce Vita, "costretto" a essere ristorante per turisti: la storia di Scoglio di Frisio

26 Feb 2024, 17:38 | a cura di
Lo strano caso dello Scoglio di Frisio, ristorante romano da cento anni - ultimo avamposto della Dolce Vita - soffocato da troppa Storia e costretto a essere “turistico”

Passare la soglia Liberty dello Scoglio di Frisio su via Merulana, a pochi numeri dal civico che fu set per il Pasticciaccio di Gadda – uno dei fari della letteratura italiana del ‘900, come ricorda la targa sul muro esterno – significa entrare in una sorta di realtà parallela, in un mondo fantasmagorico fatto a un tempo dei grotteschi del Giambologna e delle fantasie di Fellini, della stessa materia dei sogni uscita da una notte di mezz’estate shakespeariana in cui da un momento all'altro non sai se salterà fuori Puck o se ti verrà incontro il sorriso ammaliatore dell’Adalgisa… Qui, in un antro dai colori cangianti che vanno dal blu al celeste e dal turchese al verde, amplificati da un intonaco rustico e da stallatiti di calcaree “marino” e muschi di grotte saline, con le vedute del Golfo di Napoli con tanto di Vesuvio fumante e pini marittimi sul mare, pescatori e promontori dai tramonti cadenti, qui è il regno di Eugenio Rossi, una sorta di Mangiafuoco sulla soglia delle 70 primavere che di Roma recita la simpatia e la ruvidezza burbera popolare.

la sala dello Scoglio di Frisio, a Roma: è tutto rimasto come era dagli anni '30

Una sala dello Scoglio di Frisio, a Roma: è tutto rimasto come era dagli anni '30. In apertura, una festa negli anni d'oro della Dolce Vita

Un “museo” della Dolce Vita

Lui è il “direttore” di questa sorta di museo della Dolce Vita che continua a sfidare gli anni e le mode; che – lontano dalle strade “solite” della Dolce Vita – racconta la vita che c’era intorno a quegli anni magici per la Capitale, per il suo cinema, per la sua ricostruzione e ricostituzione dopo la Resistenza e dopo la seconda guerra mondiale.

«Questo era un ristorante di quartiere, qui veniva Modugno a suonare il pomeriggio quando chiudeva il banco con la rivendita di copertoni che aveva a piazza Vittorio (era quella la Porta Portese di allora). Lui veniva qui a provare col pianoforte, ecco, quel pianoforte che ancora vedi lì all’angolo: non si esibiva, ma lo lasciavo provare. Erano gli anni ’50, prima che sbancasse Sanremo con Volare. In quegli anni veniva spesso a Roma Frank Sinatra, alloggiava al Grand Hotel e aveva come press agent Enrico Lucherini. Una sera a mezzanotte, ubriaco perso, voleva sentire un cantante della “sua” terra, la Sicilia che aveva nel sangue da parte di padre. Lucherini era il suo assistente: sentiva qui da noi Modugno che cantava in siciliano anche se lui era di Polignano a Mare. Così Lucherini sfruttò la nomea di siciliano che aveva Modugno e lo portò in camera da Sinatra… Poi, nel ‘58 vinse Sanremo».

Eugenio Rossi, titolare dello Scoglio di Frisio a Roma

Eugenio Rossi, titolare dello Scoglio di Frisio a Roma

Sindrome da sopravvissuto

È tutto un fluire di racconti e di ricordi quello che esce dalle labbra di Eugenio che questo locale – una sorta di “sopravvissuto” tra Santa Maria Maggiore e San Giovanni – se lo è ricomprato almeno tre volte: «Da mia madre, da mio zio e da mia sorella – spiega – Io lo volevo così come era, ho impegnato la mia vita per tenerlo in piedi. Poi negli anni ’80 ho dovuto comprare anche le mura, per non farmi cacciare. Mi sono indebitato fino al collo per non cedere alle mode, ma ho dovuto cedere alle comitive e ai bus turistici, agli alberghi… Insomma, ho dovuto fare cassa. E sono diventato un locale turistico. E turistico è diventato un sinonimo di poca qualità. Ma quanti sono i locali non turistici dove mangi peggio che qui? Io prendo la carne dalla cooperativa di Testa di Lepre, prendo i tagli più pregiati da Biolà di Fiumicino che ha allevamenti grass fed. Il vino per i banchetti più economici viene da Genazzano…»

Da D’Annunzio a... Marchesi

Non è certo uno sprovveduto, Eugenio Rossi. Qui ha seguito la storia della sua famiglia che acquistò il ristorante dai Polenghi Lombardo – gli industriali dei succhi di frutta – a metà degli anni ’20, quando trasferirono da Napoli alla Capitale questa insegna che sul mare del Golfo aveva fatto la sua fortuna da metà dell’800. Era un ristorantone della buona borghesia partenopea a Posillipo, che ospitò tra gli altri anche D’Annunzio, Wagner e Carducci e che entrò in una canzone parodistica di Armando Gil (al secolo Mattia Testa). Era una grossa taverna oggi inglobata nella Villa Pavoncelli, un tempo la residenza preferita del Duca di Frisjo. Poi, alla fine degli anni ’20, venne venduto e “trasferito” a Roma.

«C’è tanta storia qui dentro – racconta Eugenio – Che c’è di male che possa essere anche turistico questo locale? È lo spaccato di una Roma che non c’è più, ma che è stata grande. Oggi c’è la psicosi del turistico! Ma io sono grande ammiratore di uno chef come Chicco Cerea – spiega lui, come per accreditarsi in un mondo che da qui dentro sembra davvero tanto lontano, quello della ristorazione di alto livello se non proprio fine dining – Lui ha saputo coniugare alla perfezione grandi numeri e qualità. Ma io ho conosciuto anche Gualtiero Marchesi: ho mangiato da lui a Bonvesin de la Riva e mi ha insegnato personalmente come fare un uovo al tegamino gourmet. Mi commuovo ancora – fa lui, passandosi sull’occhio il dorso della mano – Gli raccontai come mio padre mi spiegava che per testare un cuoco dovevi fargli fare lo spaghetto al pomodoro: semplice, ma complesso se si vuol mantenere il sapore. Lui invece mi disse che era molto più tecnico l’uovo al tegamino: va cotto con burro e coperto. E in effetti, fatto così ha tutt’altro sapore! Poi ho discusso con Giancarlo Morelli e gli ho spiegato come il vero segreto dell’ajo e ojo di Roma è la sfumatura col vino bianco: preserva l’aglio e dona quel tono di acidità che dà spessore al piatto. Lui mi guardava strano, ma poi mi spiegò anche lui un suo segreto da chef, quello del risotto all’onda».

I "cerini", da Ben Hur a Fellini

Il racconto di Eugenio Rossi – che qui gioca un po’ tutti i ruoli in campo, dalla cucina alla sala, dalle pr al marketing – abbraccia decenni di storia e di storie. Ma ci tiene a mandare un messaggio chiaro e univoco: «Questo è l’ultimo avamposto della Dolce Vita rimasto in piedi. Non c’è più niente a Roma. Qui veniva Burt Lancaster, la Liz Taylor, venivano Fellini e Masina, controfigure e cavallari come Pietro Marra e Pio Giglio: era il periodo dei colossal. Giravano Ben Hur. C’era il mondo dei cavallari mobilitato. Questo posto, oggi, è come era allora. Mi hanno solo fatto togliere le reti da pesca alle pareti: la Asl sosteneva che ci si annidassero polvere e acari. Mio padre era ufficiale di marina e aveva girato il mondo; mio zio era prete e viveva in Scozia: qui era uno dei pochi posti dove si parlava inglese e che aveva collegamenti stretti tra la città e il Vaticano. A quei tempi erano canali fondamentali. E quando gli americani, per sostenere la ricostruzione dopo il conflitto mondiale, defiscalizzarono gli investimenti nei Paesi distrutti dalla guerra, le grandi produzioni vennero a Roma perché qui trovarono un mondo di bravissimi artigiani e scenari fantastici. Attori, registi, produttori dormivano a Via Veneto: erano gli unici alberghi di un certo livello rimasti in piedi dopo i bombardamenti perché erano quelli dove alloggiavano anche gli ufficiali tedeschi. Questi personaggi dopo il set venivano a mangiare qui dopo o prima di sbronzarsi nei bar degli alberghi di via Veneto. Roma in quegli anni era prostrata, c’era una fame che metteva paura. E c’era tutto uno strano mondo, un sottobosco di personaggi a caccia di fortuna che girava intorno al mondo del cinema. Così nascono i paparazzi, gente che cominciò a immortalare questi vip per le produzioni americane che volevano uscire in Usa nei giornali della sera. Mentre qui da noi nascevano Momento Sera e l’Espresso. Questi fotografi li chiamavamo “cerini”, perché scattavano al volo e correvano a casa a sviluppare i rullini e a stampare e srotolavano le foto attaccate alle scatole dei lunghi cerini che si usavano allora per appiccicarle ai vetri delle finestre, al sole, e farle asciugare...».

Vita e morte della Dolce Vita

Ai tempi di Ben Hur, Eugenio ne aveva solo 6 di anni. La Dolce Vita era appena cominciata e sarebbe andata avanti per un’altra quindicina di anni. «Fino a quando gli Usa cambiarono politica fiscale e tolsero gli sgravi per chi investiva in Italia, a metà circa degli anni ’70. Così finì quella stagione mitica, fatta di miserie e di splendori. Certo, allora furono le miserie ad avere il sopravvento e la cosa che davvero uccise quel mondo incredibile che girava intorno a Via Veneto fu la droga. Senza tutto il mondo del cinema intorno restava solo droga. E sconquassò tutto».

C’era anche Lucky Luciano

Personaggi che sconvolsero la vita mondana e le cronache di Roma negli anni 60 sono per Eugenio nomi familiari, sentiti dal racconto del padre e della madre; qualcuno di loro, poi, è anche diventato suo maestro di vita. Anthony Frank Giannone era uno di loro: italo americano, era stato inviato dopo la guerra a lavorare nella polizia militare tra Roma e Napoli. Era stato anche vicino a Lucky Luciano, quando passò parte del domicilio coatto a Roma dove mise in piedi un fiorente traffico di droga con i suoi “boys”.

«Mio padre, quando capì di avere il parkinson, mi mise dietro Giannone perché mi insegnasse a vivere e mi facesse capire e conoscere tutti gli aspetti della vita nascosta romana, personaggi e storie. Così fu lui a raccontarmi il perché di quell’aggettivo, Lucky, associato al suo nome: una sorella suora in America lo salvò curandolo per un anno dalle ferite in seguito a un attentato alla fine degli anni ’20. Da allora – mi raccontarono – lui non parlò quasi più. Era diventato taciturno. Non si fidava più di nessuno. Era appassionato delle corse e delle scommesse sui cavalli: una volta un artiere in scuderia gli tirò uno schiaffo. Lui non aprì bocca. Ma quell’operaio ancora lo stanno cercando!».

Una favola su via Merulana

Lo Scoglio di Frisio che brillò in quegli anni di paillette e dorate stravaganze, ha però una storia ben più profonda e di spessore. Quel pezzo di mondo fantastico su via Merulana, che sa di mare e racconta di creature pelagiche e grotte salmastre, nasce nel corso degli anni tra la fine del primo e l’inizio del secondo conflitto mondiale. L’Italia uscita da una guerra atroce era allo stremo. Siamo nel Ventennio fascista. Roma era una città in fermento. «Qui intorno ruotavano tutta una serie di artisti “minori” della grande Scuola Romana, pittori e scultori che non si vollero legare al Regime ed erano esclusi da commesse ufficiali, relegati ai margini. Personaggi – racconta Eugenio Rossi – che alloggiavano al dormitorio di San Martino ai Monti e mangiavano gratis da noi: qui eravamo anche noi contro il Regime, mio padre qualche anno dopo fece la Resistenza a Palestrina, qui abbiamo nascosto nella carbonaia un sacco di ebrei per salvarli dai rastrellamenti: stavano nascosti e a pranzo e cena si mescolavano agli altri avventori per mangiare, poi tornavano nei locali del carbone.

Quegli artisti emarginati e senza lavoro trovavano qui qualche piatto caldo e in cambio, dopo un bel po’ di vino, si mettevano a dipingere e creare e pian pianino hanno fatto tutti i quadri che ancora sono alle pareti. Erano i pittori che andavano a dipingere i fondali del teatro dell’Opera, qua dietro, che facevano le statue di cartapesta per la scena. Erano bravi. E generosi. Ma soprattutto, non avevano mai visto Napoli e così tra cartoline e racconti cominciarono a rappresentare sulle tele la “loro” Napoli, il “loro” Vesuvio, le “loro” marine. Eccole, alle pareti». Tra loro c’era pure Giorgio Sardella, uno dei più grandi falsari di Roma… «Sì, era della scuola del grande Arturo Martini, l’ultimo grande scultore romano – racconta Eugenio – Comprava i marmi antichi e dove si vedeva la parte viva del taglio recente, la ossidava con un mischietto di pomodoro, urina e acido ascorbico: così diventava tutto “vero”!»

La Storia che toglie il respiro

C’è la Storia qui dentro, quella con la S anche maiuscola. Troppa, forse? Manca la vita, anche se non Dolce come quella di allora: si sente il fascino del tempo ma manca il respiro, un soffio vitale. Chi viene qui? Chi sono i clienti dello Scoglio di Frisio? «Beh, qui continuava a venire un personaggio come Federico Umberto D’Amato, anche dopo la “riconversione” turistica dello Scoglio. Lui era il motore della guida de l’Espresso, era un amante del buon cibo. Veniva perché stava bene e perché ci voleva bene. Prima veniva qui con il padre e poi ha continuato a passare anche da solo. Ci teneva a noi e continuò a metterci sulla guida fino alla fine – ricorda con melanconia il cuoco-patron dello Scoglio – Continuano a venire diversi clienti che venivano già da piccoli con i genitori. E poi, dico io, viene pure chi vuol mangiare una cosa fatta bene. Non mi piacciono le scomuniche! Saremo pure turistici e sarà pure vero che al 90% i turisti mangiano le schifezze. Ma perché, gli italiani che mangiano?».

Qui l’ambiente richiama il mare e la cucina ammicca molto al pesce. «Ma – avverte Eugenio – Ormai una mangiata di pesce vera la puoi fare solo se prenoti e mi dai il tempo di trovare il pesce serio. Altrimenti, mangerai pure ma non certo di qualità particolare! Io però faccio anche il ragù, all’antica: lo faccio andare nel pomodoro per ore e ore e con diversi pezzi di carne. Faccio io la Genovese. Abbiamo le scaloppine e i saltimbocca. E qualche bottiglia di vino decente».

Un sogno impossibile

Una domanda ci ronza da tempo in testa e gliela facciamo, a rischio di apparire ruvidi: ma cosa dovrebbe essere per Eugenio lo Scoglio? Come se lo immagina se potesse dargli nuova vita? «Il mio dream? Impossibile da realizzare. Mi piacerebbe tornare a una clientela che sia più competente del ristoratore. Vorrei slegarmi da tutti i luoghi comuni che scambiano fama e notorietà con la bravura. Vorrei tornare al “provare per credere”; vorrei che qualcuno, ecco, chiedesse come si fa una Genovese, un Ajo e Ojo serio. Vorrei poter rifiutare tutte le decorazioni sui piatti. Ormai impieghiamo venti minuti a piatto per sfornare un “kaiseki” che è bellissimo ma che non ci appartiene - fa Eugenio usando termini e concetti propri della cultura cui appartiene sua moglie, giapponese, e sua figlia che è andata a lavorare il Giappone - Noi siamo “kaori”. Profumo. Sapore. Noi siamo il Paese in cui da ogni provincia, da ogni campagna abbiamo portato nelle città la quotidianità delle radici creando un caleidoscopio di aromi e tradizioni. Rifiuterei assolutamente qualsiasi topping sui dessert». Pausa. Si guarda intorno Eugenio, passa la mano sul tavolo uscito dalla sala da pranzo di un salotto borghese dei primi del secolo scorso. «E su consiglio di un amico professionista comincerò a ridurre il numero dei piattini carta». Scelta saggia questa. Magari prologo a un rilancio vero! E noi che pensavamo che la salvezza dello Scoglio potesse consistere nel diventare un luogo cult, una specie di museo della Roma che fu. Invece Eugenio lo vede ancora come un luogo di vita, un’insegna che potrebbe avere una seconda giovinezza. Del resto, spesso finisce così per i luoghi (ma anche le persone) con troppa Storia: rischiano di soffocare sotto il loro stesso spessore.

Riscopriamo i locali turistici?

L’incontro però è alla fine, lui deve scappare per andare a ritirare un quintale di castagne a Carpineto («Sono le migliori, secondo me») per la festa della parrocchia di San Martino. «Ogni anno aiuto il parroco, un bravissimo uomo, per la festa che si svolge proprio qui dietro: preparo le caldarroste e prendo il vino bianco alla cantina di Genazzano». Ecco, a proposito di cinema: sembra anche di stare in un set di Peppone e Don Camillo. Questo omone che si dichiara “comunista” («Ma di quelli veri, di quelli che ci mettevano il cuore. Mica come oggi!») ha parole dolci per il “suo” parroco: «È più comunista lui che tanti che ci si chiamano oggi – sorride – Pensa che ha anche attrezzato da tempo uno spazio per far fare la doccia a chi non ha una casa o un bagno per poterla fare e lo apre due volte la settimana». Sì, l’incontro con Eugenio è finito. Ci si alza da tavola dopo un paio di bicchieri di quel bianco di Genazzano da meno di due euro al litro. Beh, meglio di tanti altri “sfusi” assaggiati in diverse trattorie o anche ristoranti; non lascia mal di testa né acidità di stomaco. Chissà, magari bisognerà cominciare a frequentare di più i locali per turisti?

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