Riccardo Cotarella guiderà l’Assoenologi anche per il triennio 2025-2027. L’associazione, che ha sede a Milano, ha scelto di confermarlo ai vertici e rinnovargli la fiducia per il quinto mandato consecutivo. Tra gli enologi più noti a livello mondiale, con oltre cento collaborazioni, in questa intervista al settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso, Cotarella interviene sul tema delle sovrapproduzioni di vino made in Italy, degli estirpi e dei vini dealcolati che egli stesso – pur non digerendo ancora bene l’espressione “vino dealcolato” – da quest’anno ha scelto di produrre, dopo essere stato uno dei più duri oppositori nei confronti di questa specifica categoria emergente.
Partiamo dall’imminente Congresso Assoenologi, a fine giugno, in Sicilia. Che contributo arriverà dal vostro appuntamento in una fase difficile per il nostro vino?
Mai come quest’anno il Congresso assume un significato così importante. Siamo in una fase delicata, segnata da mutamenti nei consumi, sfide internazionali, tensioni sociali, attacchi indiscriminati che arrivano anche da una certa stampa e da cambiamenti climatici. Il nostro Congresso sarà un’occasione di confronto franco e concreto tra enologi, produttori, istituzioni e studiosi. Tutte figure che amano profondamente e proteggono il vino italiano, patrimonio insostituibile del nostro agroalimentare. Il contributo che vogliamo dare è offrire una visione prospettica, che parta dalla tecnica ma guardi al mercato e alla sostenibilità, per rilanciare il vino italiano con intelligenza, responsabilità e innovazione.
Vendemmia del Lambrusco a Castelvetro – foto Marco Parisi
Rimanendo alla stretta attualità, il settore attende di capire se Usa e Ue si accorderanno per evitare una guerra dei dazi. Il 2025 potrebbe segnare una svolta?
I dazi rappresentano sempre un elemento di disturbo nei rapporti commerciali. Si era, persino, ventilata l’ipotesi di un aumento al 200%, e questo avrebbe colpito duramente il nostro export. Oggi, siamo in una situazione diversa, con dazi contenuti e un’apertura al dialogo che fa ben sperare. L’auspicio è che nel 2025 si arrivi a una definitiva eliminazione di queste barriere. Ma al di là dei dazi, il vero obiettivo deve essere rafforzare la nostra presenza sui mercati internazionali, trovando i giusti canali e lavorando su qualità, identità dei territori e su una comunicazione più moderna.
Guardiamo al mercato e alle giacenze nazionali di vino: si avverte il bisogno di un deciso controllo dei volumi. Cosa pensa della riduzione delle rese, sia delle Doc sia dei generici?
La questione delle rese va affrontata con molta lucidità. Non si tratta di ridurre a prescindere, ma di governare i volumi in base alle reali esigenze del mercato. L’eccesso di produzione è un problema che va gestito. È necessario un confronto serio con i consorzi, con le Regioni e con il Ministero, per definire criteri chiari e condivisi.
foto Pixabay
Che ruolo hanno, in questo, i produttori?
Occorre soprattutto che il produttore sia imprenditore di se stesso e capace di gestire le produzione in funzione del mercato. Prima di impiantare un vitigno nuovo, deve conoscere le potenzialità del mercato. Intanto, dobbiamo evitare che il vino diventi una commodity, svuotata di valore. E questo passa anche da una politica attenta alle rese, che non penalizzi la qualità, ma anzi la valorizzi.
L’estirpazione dei vigneti, contenuta nel Pacchetto Vino della Commissione Ue, può essere una soluzione?
L’estirpazione non può essere una soluzione generalizzata, ma in alcune zone del Paese potrebbe rappresentare una misura di equilibrio. Insomma, la potremmo definire un male necessario.
Si riferisce a qualche area in particolare?
Penso a contesti dove la viticoltura è stata spinta oltre le reali potenzialità commerciali, o dove si è prodotta una saturazione senza sbocchi di mercato. Tuttavia, ogni intervento deve essere valutato con attenzione, tenendo conto della vocazione dei territori e delle prospettive future. Ma anche in questo caso ritorno al concetto del produttore imprenditore di se stesso. Se comprende che l’espianto, magari programmato nel tempo, è necessario, allora va fatto. E questo lo dice la mia esperienza derivata dalla creazione, insieme a mio fratello Renzo, di quattro aziende della nostra famiglia tra Umbria, Lazio Montalcino e Bolgheri, non ereditate ma create dal nulla.
A proposito di scelte personali. Anche lei, presidente, produrrà vini dealcolati. Ha superato, evidentemente, gli scetticismi iniziali e assunto una posizione più pragmatica.
È importante chiarire: non si può davvero parlare di “vino dealcolato”, perché togliendo l’alcol, si priva il vino di una sua componente identitaria fondamentale. È come togliere l’anima a una persona.
Non ci dica che ha cambiato nuovamente idea?
Noi enologi, da un punto di vista ideologico, riteniamo offensivo chiamare vino un prodotto dealcolato, che può essere definito solo bevanda. Tuttavia, da enologo, ho il dovere di ascoltare i produttori e rispondere alle loro esigenze di mercato. Non possiamo essere obiettori di coscienza, laddove è evidente la necessità per il produttore di risolvere evidenti problemi di mercato. In quanto tecnici al servizio dei produttori, dobbiamo adoperarci per realizzare questi prodotti nei migliori dei modi.
Come sarà questa sua nuova creazione?
Personalmente, sto sperimentando in diversi paesi questa tecnica. Il mio primo dealcolato sarà francese e uscirà a ottobre.
E in Italia, che deve risolvere l’impasse fiscale sui no-low alcol, come si sta muovendo?
In Italia, sto continuando la sperimentazione come in altre zone del mondo. Dobbiamo dare anche atto all’evoluzione della tecnologia che ha fatto progressi da gigante e, in tal senso, ci permetterà di produrre dealcolati quanto meno senza infamia e senza lode.
Un dealcolato potrà forse salvare il vino dalla crisi dei consumi?
No, il dealcolato non potrà salvare il comparto. È una risposta parziale, forse passeggera, a una tendenza di consumo, che pur avendo raggiunto i 10 milioni di bottiglie, rappresenta oggi solo lo 0,4% del mercato mondiale. Come tutte le mode, rischia di essere effimera.
Quindi, quali strategie servono per il rilancio?
Il rilancio del vino passa da strategie più profonde: comunicazione più efficace, valorizzazione delle denominazioni, promozione all’estero, attenzione ai giovani consumatori e, soprattutto, alla qualità e al ripristino della verità contro le tante fake news, tese solo a screditare il nostro settore. Solo così possiamo ricostruire una relazione autentica tra vino e società.
Ha visto che alcuni consorzi stanno lavorando sulla bassa gradazione? Ad esempio, Pinot grigio e Prosecco Doc?
È giusto che i consorzi si muovano per rispondere a nuove esigenze di consumo, e quello delle basse gradazioni è un tema concreto, che merita attenzione. Tuttavia, va affrontato con competenza e misura. La bassa gradazione non deve diventare una moda fine a se stessa, ma uno strumento per soddisfare segmenti di mercato che lo richiedono e anche per dimostrare la potenzialità dei territori a produrre vini con caratteristiche diverse, senza che quest’ultimi perdano la loro identità. Ci sono zone in cui, per caratteristiche climatiche e varietali, si possono ottenere vini leggeri ma di grande finezza, eleganza e bevibilità. Altresì, è la tecnologia che permette di ottenere ottimi vini a bassa gradazione. Il supporto dei consorzi è fondamentale ma, torno a ripetere, certe innovazioni devono partire dai produttori. Tra l’altro, mi piace ricordare che c’è una denominazione, a me molto cara (la Doc Orvieto; ndr), che è stata la prima in Italia a ottenere la riduzione del grado alcolico da 11,5% a 10% volume fin dalla vendemmia 2024.
Vigneti Orvieto Doc
Ma, allora, in questo scenario come si deve muovere l’enologo del futuro? Ci sarà sempre più spazio per i vitigni resistenti o basati, ad esempio, sulle Tea, o basterà un lavoro attento sugli autoctoni, di cui l’Italia è ricchissima?
L’enologo, assieme al produttore, è la figura centrale della filiera vitivinicola. È così a partire dagli anni Ottanta, quando ci fu una vera e propria rivoluzione copernicana che portò alla rivisitazione totale circa il livello qualitativo dei vini italiani. Quindi, l’enologo del futuro sarà sempre più determinante, chiamato a unire competenza tecnica, visione strategica e sensibilità culturale. Dovrà conoscere le nuove tecnologie, i vitigni resistenti, i cambiamenti climatici, l’arte della comunicazione e non dovrà mai avere timore di fare ricerca nel comparto complessivo del vino. Gli enologi sono e continueranno a essere protagonisti assoluti di questa nuova stagione del vino italiano.
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