In Italia cenare al ristorante può riservare una piccola sorpresa al momento del conto: la voce “coperto”. A volte la sorpresa in realtà non è neanche tale in quanto il coperto è ben indicato nel menu, come prevede l’articolo 180 Tulps (regio decreto n. 635/1940) che impone infatti ai pubblici esercenti di esporre, in luogo ben visibile al pubblico la tariffa dei prezzi. Spesso pochi euro a persona, ma sufficiente a generare polemiche e, talvolta, discussioni con il personale di sala. Ma perché, a distanza di secoli, è ancora presente nei menù di tanti ristoranti italiani?
L’origine del coperto risale al Medioevo quando nelle prime locande e taverne, il “coperto” indicava letteralmente il diritto ad avere un tetto sopra la testa, un posto a tavola e utensili base. Il cibo veniva spesso portato da casa o acquistato separatamente. Con il tempo, il termine ha perso il suo significato originario, ma è rimasto nella prassi commerciale. Oggi il coperto è una voce tariffaria che viene aggiunta al conto finale per ogni persona seduta al tavolo. Il suo importo varia: in genere si aggira tra 1 e 3 euro, ma nei ristoranti più eleganti o nelle località turistiche può salire anche a 5 euro. A differenza del servizio, che può essere facoltativo o incluso nel prezzo, il coperto è spesso applicato automaticamente e giustificato come contributo per pane, tovagliato, posate e pulizia del tavolo.
Il coperto non è illegale, ma deve essere chiaramente indicato nel menu come previsto dal Codice del Consumo. In caso contrario, può essere contestato dal cliente. Non sono rari i turisti — ma anche gli italiani — che, ignari della prassi, si sorprendono o si lamentano. Se per molti ristoratori il coperto rappresenta una voce necessaria per far fronte ad alcuni costi fissi, per altri è ormai una tassa impopolare che non predispone bene i clienti. Alcuni locali, soprattutto quelli orientati al turismo internazionale con i clienti abituati a lasciare la mancia ma non a pagare il coperto, hanno preferito abolirlo del tutto inglobando i costi nel prezzo dei piatti. Spesso è facile confondere il coperto con il servizio, ma secondo la normativa ogni costo deve essere esplicitamente indicato nel menù, con chiarezza e prima della consumazione. In caso contrario, il cliente può contestare l’addebito e persino rifiutarsi di pagarlo.
L’articolo 16 della legge regionale n. 21 del 2006, che disciplina lo svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, vieta espressamente l’addebito del coperto anche se consente la voce “servizio”. Quindi a Roma e nel Lazio non si dovrebbe pagare il coperto, ma chi frequenta i ristoranti capitolini e limitrofi sa bene che questa voce resiste senza paura nei menu di molti locali. Il motivo, presumibilmente, è legato a una convenienza economica. Se si osserva bene il secondo comma dell’articolo 20 della stessa normativa, dove sono indicate le sanzioni pecuniarie, si può leggere che “chiunque viola le disposizioni contenute nell’articolo 16 è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 2 mila 500 euro a 7 mila 500 euro”. Facendo un esempio pratico se si prende in considerazione un ristorante di Roma da un centinaio di coperti, che presenta la voce nel menu “coperto 3 euro”, ci metterà 8-10 giorni a pagare la sanzione minima solo con i “coperti” incassati in questo arco di tempo. Valutando la poca frequenza con cui vengono fatti controlli di questo tipo, ecco che un ristoratore fa presto a valutare la convenienza nel mettere questa voce nel menu.
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