Sopravvivere alle prenotazioni

Mangiare una delle pizze più buone di Roma è diventata una gincana. Diario di una cliente masochista da A Rota

Perché andare a mangiare fuori è ormai diventato un percorso ad ostacoli, tra ansia da prenotazione e rigide regole di ammissione?

  • 21 Luglio, 2025

C’era una volta il cliente che andava a mangiare fuori per sentirsi coccolato, leggero e appagato. Oggi c’è il cliente che va a mangiare fuori perché ha bisogno di vivere quell’esperienza specifica, anche se di forte impatto emotivo. Anzi proprio per questo. E il ristoratore lo sa, anzi ci gioca, aumentando la difficoltà e quindi l’hype. Per lui è engagement. Per il cliente è semplice masochismo. Perché diciamolo: ci piace essere trattati male, giudicati, assoggettati, malmenati nello spirito.

L’ansia da prestazione del cliente

Ma partiamo dall’inizio. Avete mai vissuto l’angoscia della prenotazione? La paura di essere rifiutati? Quella fomo che potrebbe mettervi ai margini della società? A me succede ogni volta che decido (e, ahimè, lo decido spesso) di andare da A Rota, la pizzeria capitolina di Tor Pignattara che negli anni, grazie al lavoro di Sami El Sabawy, è diventa un punto dir riferimento per l’impasto romano. La pizza dolce, poi, è puro godimento, ma … da conquistare sul campo. Ed è questo il punto. Non è sulla qualità che vogliamo soffermarci ma sull’ansia da prestazione. Quella del cliente, appunto. Perché ognuno ha il proprio A Rota del cuore.

Primo step: la prenotazione

Poniamo che il locale in questione catalizzi tutte queste preoccupazioni in una fascia oraria ben precisa: chiamare esclusivamente dalle 17 alle 19. Due ore per decidere la vostra serata. Due ore per sapere se sarete dentro o fuori. Due ore e un unico obiettivo: farcela. Mettiamo che vada tutto bene (ma siete avvisati: non sempre è così). Avete messo l’alert alle 16.59 e, una volta composto il numero, la voce dall’altro lato del telefono ha detto che sì, siete dentro: è fatta (pensate!). L’esultanza è simile a quella di un esame superato col massimo dei voti, ma ancora non sapete che è solo la prima prova di un intero corso di sopravvivenza al mangiar fuori.

Secondo step: la chiamata di conferma

La seconda prova è bene non sottovalutarla ed è la chiamata di conferma (se siete fortunati sarà solo un messaggio, ma che presuppone risposta immediata). I veterani sanno che arriverà nel giorno della prenotazione, gli altri sono avvisati: rispondete o siete fuori. E non esistono deroghe. Chi sa, è già agitato dalla notte: non dorme per la tensione, carica la batteria del telefono al massimo per essere sicuro di non restare senza, evita di fare altre chiamate per non occupare la linea, declina l’invito del capo a presentarsi in riunione. D’altronde ha una chiamata a cui rispondere. E mica una qualsiasi.

Terzo step: le condizioni di prenotazione

Poniamo che siate riusciti a rispondere (anche in questo caso, nello sliding doors delle possibilità, stiamo descrivendo quella migliore) e confermare il vostro “Sì, lo voglio”. Siete più rilassati, convinti che il peggio sia passato, sicuri che la strada adesso sarà in discesa. E invece no. Ve ne accorgete poco dopo, quando arriva un messaggio che sembra un contratto di locazione. Indecisi se chiamare l’avvocato per dichiararvi innocenti o il notaio per formalizzare l’atto e mettere la firma, inizia lo studio matto e disperatissimo delle condizioni elencate: avvisi, allergie, presenza di figli, carrozzine, cani, animali, nome, cose, persone, città… FERMI. Respirate. È tutto ok, potete farcela. “È solo una prenotazione. È solo una prenotazione”, iniziate a ripetervi per tranquillizzarvi. Vi basterà presentarvi al locale all’ora giusta.

Quarto step: l’arrivo simultaneo

Soffermiamoci su questo punto: l’ora giusta. Ricordatevi: non sono ammessi ritardi neppure di pochi minuti. E non è un modo di dire. Ho visto cose che voi umani … Ma non basta. Ricontrollare il punto numero 1 del messaggio di conferma: “La prenotazione viene considerata valida soltanto con tutte le persone presenti all’orario stabilito”. Pena la perdita del posto. E non è importante se la sala sia piena o vuota. Insomma, anche gli altri ospiti (si presuppone che almeno condividiate con altri questo stato ansiogeno) devono presentarsi tutti assieme allo scoccare dell’orario concordato. Dal vostro angolo fuori dal locale, dove siete stati rispediti, pregate, con un occhio all’orologio e uno alla strada, di vedere comparire i vostri +1 o +2 o +3 o quel che è, mossi dal vostro stesso stato di agitazione.

La lavata di capo

Arrivati a questo punto della narrazione, le variabili sul tema sono molteplici. La prima è che gli amici in questione arrivino tardi. Sudate freddo per loro (ma anche per voi che, costretti ad aspettare fuori senza poter rivendicare la vostra puntualità, fate ormai parte di “loro”). A quel punto non resta che girare i tacchi o munirsi di impermeabile “m’arimbarza” perché la lavata di capo – e anche bella plateale – è assicurata. Certo, si può giocare d’anticipo, cospargendosi quello stesso capo di cenere per prevenire l’ira funesta, ma non servirà: per tutta la serata sarete macchiati dallo stigma della cattiva azione e trattati come meritate. La vendetta è un piatto che non va servito freddo, ma in ritardo. E con stizza. E allora non vi resta che subire in silenzio, consci di non aver diritto di parola perché dovete espiare la vostra colpa. L’unica speranza è che qualcuno faccia peggio di voi, o – oltraggio – si presenti senza prenotazione. Solo così, il vostro sadismo si potrà spostare sull’ingenuo malcapitato (per cui urge il corso di formazione di cui sopra) accompagnato senza possibilità di appello alla porta.

La sindrome del cliente masochista

La seconda possibilità è che tutto fili liscio. Ma quel filar liscio significa che la vostra contrazione per tutta la serata è stata portata al massimo livello. La ricompensa è un’ottima pizza, una foto da postare su Instagram, una serata tra amici, ma con lo stato emotivo dei bambini che guardano il maestro in cerca di approvazione, coscienti che al primo sbaglio potrebbero essere bacchettati.
Pensateci: davvero vogliamo essere quei bambini impauriti anche nei nostri sabato sera? Per carità, anni e anni del “cliente ha sempre ragione” e di no show impuniti avranno pure sortito questa legge del contrappasso, ma chi l’ha detto che dobbiamo scontarli tutti noi, masochisti di professione, proprio adesso e con questa violenza? Come direbbero a Roma: “Anche meno”.
Se qualche mese fa lo scrittore Francesco Piccolo confessava di tornare sempre al forno Panella per il piacere di essere trattato male, forse anche noi dobbiamo prendere atto di soffrire della stessa sindrome. Ma tranquilli possiamo uscirne.

“Mi chiamo Loredana ed è da tre settimane che non vado a A Rota”… ma solo perché non sono riuscita prenotare!

 

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