C’è un angolo del Pratomagno toscano dove il tempo ha smesso di correre e ha iniziato a fermentare. Non è un gioco di parole: lì, tra castagni secolari, ortiche e silenzi d’altura, sorge Pan di Legno, un’osteria fatta di legno vero, di terra ruvida, di mani sporche e cucine ardenti. Nessuna insegna al neon, nessun menu laminato: solo un casolare ristrutturato nel borgo de La Trappola, frazione di Loro Ciuffenna, ad una manciata di km da Terranuova Bracciolini (Arezzo). Se questi posti non vi dicono nulla, tranquilli, sono l’altra faccia della medaglia (pacata) della Toscana. Sul versante aretino della montagna, dove si cucina, si fermenta, si cammina e si condivide.
Pan di Legno non è un ristorante, non è un agriturismo, ma il frutto di un incontro, tra una salentina trapiantata e un valdarnese mezzo piacentino, Francesca e Jody, in un’altra vita linguista e manutentore, che si sono incrociati lungo il sentiero e passo dopo passo stanno creando qualcosa di reale. Un esperimento rurale e visionario che profuma di koji, d’agresto e di foglie bagnate. Qui si fa cucina di territorio, certo, ma con un twist che ha più a che fare con l’alchimia che con la tradizione.
Non troverete il solito piatto “tipico”, ma una sinfonia dissonante e affascinante di elementi antichi e visioni nuove: burro salato all’aglio rosso autoprodotto, bombette di maiale Grigio del Casentino con chutney fermentato, maltagliati con erbe di prato, cinghiale di bosco, infusi di foglie selvatiche. Tutto viene preparato con ingredienti che raccontano una geografia precisa: il fagiolo zolfino, l’olio del Valdarno, le castagne raccolte a mano tra ottobre e novembre. Ma soprattutto, fermentazioni lente e spericolate che trasformano il vegetale in sapore vivo. Roba che ribolle nelle stanze, ogni qualvolta si tengono laboratori, corsi e sessioni collettive di fermentazione, sempre firmate Pan di Legno. I corsi sono tutto fuorché accademici: qui si parla di microbioma, di stagioni, di muffe “buone”, ma anche di vita rurale, di cambiamento climatico, di ritorni alla terra non nostalgici, ma ostinati e radicali.
Pan di Legno si inserisce in un ecosistema, come realtà autonoma, ma profondamente connessa a tutto ciò che c’è intorno. Dal borgo parte, infatti, anche l’importante progetto della Cooperativa di Comunità Pratomagno; nato dall’intenzione di un gruppo di abitanti e imprese del Valdarno Superiore di contrastare l’abbandono del Massiccio del Pratomagno. L’ostello Orma del Lupo (24 posti letto) è stato preso in gestione dalla stessa associazione e può essere la base perfetta per partire alla scoperta di un territorio veramente incontaminato.
Con Pan di Legno durante l’anno inoltre si cammina. In primavera in mezzo ai narcisi e piante commestibili, in estate si cucina sulla brace, in autunno si raccolgono castagne e si fermentano funghi, mentre sotto il pergolato si continua a ragionare di montagna viva e cucine future. Questo atypical mountain restaurant, come piace chiamarlo alla giovane coppia che se ne prende cura, è il cuore conviviale di tutto questo. L’osteria apre nei fine settimana, ma non è mai uguale a sé stessa.
Il menu cambia con l’umore delle fermentazioni, con le sorprese dell’orto e dei boschi, con ciò che i produttori vicini riescono a mettere a disposizione. Si mangia, quando il tempo lo permette, su un grande terrazzo con vista su tutto il Valdarno, ci si parla, ci si ascolta. È un posto che non serve clienti, ma ospita complici.
Il nome, Pan di Legno, è ironico e serissimo insieme: richiama la fame, l’essenziale, la cucina di recupero, ma anche il bosco vivo, la materia prima che qui è ovunque: nei mobili autocostruiti, nei piatti lignei, nei sentieri che partono dalla porta di casa. Il legno, insomma, come materia madre. E il pane, quello fermentato, come simbolo della trasformazione lenta e profonda che questo posto rappresenta. Sì, si mangia bene. Ma si esce soprattutto con la sensazione rara di aver fatto parte, anche solo per un pasto, di una piccola rivoluzione gentile. Di quelle che non urlano, non postano ogni giorno, ma che cambiano i territori da dentro, come il lievito fa con l’impasto: in silenzio, con pazienza, lasciando traccia.
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