Mostra del Cinema di Venezia

Un docufilm racconta la cucina italiana attraverso cinque grandi donne

Cinque cheffe, cinque mondi: il docufilm presentato alla Mostra del Cinema racconta l’anima femminile dell'alta ristorazione

  • 04 Settembre, 2025

Capita spesso che sul grande schermo il cibo sia metafora, suggestione, contesto. Più raro che diventi protagonista assoluto. È successo con La quinta stagione, docufilm di Giuseppe Carrieri scritto da Paola Valeria Jovinelli per Identità Golose e presentato alle Giornate degli Autori dell’82a Mostra del Cinema di Venezia. Sullo schermo sfilano paesaggi, piatti, natura e poesia grazie alle cinque protagonista che cucinano, pensano, decidono. Le cinque cheffe non interpretano sé stesse: semplicemente sono. Ed è in questa autenticità che il docufilm trova la sua forza. La voce narrante di Isabella Ragonese in testa e in coda, guiada lo spettatore in un viaggio che non è celebrazione ma racconto intimo, fatto di gesti quotidiani e scelte radicali. La cucina, qui, diventa lente d’ingrandimento su un tema che attraversa il settore gastronomico italiano: la visibilità e il ruolo delle donne in un ambiente ancora fortemente maschile.

Le cinque stagioni

Presentato a Venezia, La quinta stagione porta il racconto della cucina d’autore fuori dalle sale da pranzo e dai manuali di critica gastronomica, per collocarlo in uno spazio narrativo e poetico. Non celebra l’eroismo individuale, ma la forte delicatezza condivisa, il coraggio di fare scelte fuori asse, l’urgenza di cercare un linguaggio personale.
Ciascuna delle protagoniste è raccontata attraverso la stagione che meglio la rappresenta, con un tempo interiore e un paesaggio che la definiscono.
Caterina Ceraudo, con i suoi fiori eduli, l’orto insieme al papà e una stella Michelin al Dattilo di Strongoli, narra la primavera. Il suo legame con la Calabria è simbiotico: lavora nella tenuta agricola di famiglia, respira la terra, dialoga con la natura. I suoi piatti sono semi che germogliano, promesse di futuro.

Martina Caruso, chef del Signum a Salina, con la componente marina, salata e frizzante, incarna l’estate. Solare, diretta, con l’isola e il pescato come centro e orizzonte. Trasforma la lontananza geografica in magnete culturale: quello che sembra periferico diventa, attraverso la sua cucina, epicentro di relazioni.

Valeria Piccini, due stelle Michelin al Da Caino di Montemerano, con la sua profonda conoscenza e passione per le carni, è l’autunno. La sua cucina affonda nelle radici contadine toscane, in gesti antichi che diventano contemporanei senza perdere gravità. È l’eredità trasformata in atto presente.

Antonia Klugmann, una stella Michelin a L’Argine a Vencò, con l’amaro, il bruciato e il materico, rappresenta l’inverno, ma un inverno fertile, riflessivo. Lavora in un luogo di confine e ne fa materia di pensiero: il bosco, i campi, il tempo che passa. Nei suoi piatti si sente il silenzio che precede la rinascita.

A chiudere in quintetto, Cristina Bowerman, una stella Michelin a Glass Hostaria di Roma, è la quinta stagione: difficile da definire, sospesa, plurale. Soprattutto libera dalle costrizioni di stagionalità, km0 e gastrosnobismo. Nel cuore di Trastevere, ha costruito una cucina che è attraversamento: multiculturale, aperta, cosmopolita. Una figura e un’espressione culinaria che simboleggia la trasformazione, il movimento, la possibilità di un tempo “altro”.

la quinta stagione cheffe

La questione di genere

La quinta stagione non è un manifesto femminista, ma inevitabilmente apre la riflessione: perché la presenza femminile nelle cucine stellate è ancora così ridotta? In Italia, su circa 380 ristoranti premiati dalla Michelin, solo una quarantina hanno una donna al comando. Poche se non inesistenti le capopartita, le commis, le saucières, che per via della gavetta arriverebbero al ruolo di cheffa “premiabile”. Le cause non sono più gli orari estenuanti, gli equilibrismi della conciliazione familiare, bensì i retaggi culturali che vedono ancora la figura del cuoco uomo come depositario dell’autorevolezza.

Le cinque cheffe del documentario sono eccezioni, ma non dovrebbero esserlo. Hanno costruito la loro identità in spazi non sempre predisposti ad accoglierle: nei campi calabresi di Strongoli, nei sentieri affacciati al mare di Salina, nei borghi medievali della Maremma, al confine friulano, nello strombazzare trasteverino. Ogni luogo ha imposto loro un confronto con la propria individualità e, insieme, ha offerto una forza che diventa linguaggio.
Ciò che le unisce non è soltanto il talento, ma la capacità di trasformare il vincolo in possibilità. Dove lo spazio sembra limitato, loro aprono una prospettiva. Dove la tradizione pare immutabile, loro trovano la crepa per inserire un nuovo seme. È in questa capacità di mediazione, di resistenza e di invenzione che si intravede il senso della “quinta stagione”: un tempo che non esiste nei calendari, ma che diventa reale perché qualcuno lo abita.a

Sul finale dei cinque ritratti e racconti, le cinque protagoniste sedute attorno al tavolo di Identità Golose a Milano, offrono possibilità. La loro cucina oltre la tecnica e la creatività è memoria, paesaggio, identità. Un modo di stare al mondo. Forse è questa la lezione più forte del docufilm: la vera “quinta stagione” è il tempo che ciascuna si prende per coltivare il proprio racconto, in cucina come nella vita.

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