La crisi e il rilancio dei consumi di vino non passa per il taglio dei prezzi delle etichette in carta nel canale fuori casa. Ne è convinto Paolo Trimani, enotecario di lunga esperienza e attento osservatore del mondo vitivinicolo, che nel cuore di Roma (nella centrale via di Ripetta) gestisce una delle insegne più antiche d’Italia. Nessuna lezione dall’Assoenologi sui costi dei vini, insomma, dopo il recente appello agli operatori attraverso un manifesto in dieci punti, a firma del presidente Riccardo Cotarella, per proporre alcune ricette anticrisi sul vino italiano. Tra queste, l’esortazione al mondo dell’Horeca ad evitare ricarichi esagerati, per favorire un’esperienza col vino che sia accessibile. Trimani, che nel 2021 ha festeggiato i 200 anni di storia dell’enoteca Buccone, non ci sta e rimanda indietro l’appunto del presidente di Assoenologi: «Mi meraviglia che si facciano appelli a contenere i ricarichi proprio agli operatori a valle della filiera», sottolinea nell’intervista rilasciata al settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso.
Partiamo dal tema del caro-vino nel canale fuori casa, in ristoranti ed enoteche, e dal recente invito degli enologi italiani a mitigare i prezzi e venire incontro ai consumatori.
Non ho necessità di un appello a contenere i ricarichi e, anzi, mi meraviglia che lo si rivolga proprio agli operatori a valle della filiera.
A giudicare dal dibattito in corso, sembra siate finiti nell’elenco dei cattivi…
In genere, fare appelli a qualcun altro è più comodo. Non nego che la ristorazione abbia un ruolo importante in questo momento, ma se guardiamo tutta la filiera, dalla produzione alla vendita, allora notiamo che in realtà il vino comincia in vigna. Se andassimo a vedere quale sia il costo reale in fattura…
Ecco, i costi. Ci faccia un esempio.
Se il prezzo di un vino a scaffale è di 122 euro per il consumatore finale, bisogna considerare innanzitutto che ci sono 22 euro di Iva. Quindi, nei restanti 100 euro, il peso del prodotto vino si aggira intorno ai 70 euro. Quel vino la mia enoteca lo compra a 70 euro più Iva, ovvero 85 euro. Quindi, mi chiedo: il maggiore guadagno lo fa l’enoteca oppure chi sta a monte della filiera?
Quindi, margini risicati e pochi spazi di manovra, al di là dell’appello di Assoenologi.
So bene, al di là di qualsiasi appello, che se mettessi in vendita un vino a un prezzo di fantasia, quel vino non me lo comprerebbe nessuno, nel momento in cui il consumatore riconoscesse che quell’etichetta ha un prezzo sbagliato. Automaticamente, avrei problemi a far entrare nuovamente i clienti nel mio negozio o nel mio ristorante. E, cosa non da poco, metterei a rischio l’intera attività.
Insomma, il consumatore oggi ha più elementi per giudicare.
Non è solo una questione di serietà da parte dell’esercente. Infatti, esistono diversi sistemi digitali, disponibili su smartphone grazie a varie applicazioni, che permettono ai clienti di confrontare in qualsiasi valuta un buon 90% delle etichette presenti sul mercato. E ciò accade sempre più di frequente. Quindi, se non c’è un’oscillazione ragionevole sul prezzo del vino in carta, allora il cliente scuote la testa e, semplicemente, non lo compra. Ecco perché ritengo che l’oggetto degli appelli dell’Assoenologi dovrebbe essere non tanto l’atteggiamento dei ristoratori bensì un certo tipo di pratiche commerciali lungo la filiera vitivinicola.
Si dice che il ricarico medio in Horeca coincida col prezzo del vino alla produzione moltiplicato tre.
Per quanto mi riguarda, la bottiglia che si moltiplica per tre volte, rispetto al prezzo d’origine, è più un sogno che un’eccezione. Può capitare quando ti sei tenuto da parte delle annate speciali di vini molto particolari e ricercati. In quel caso, potrei chiedere cifre che col prezzo di acquisto non hanno il minimo rapporto. Ma è chiaro che non puoi fare alcun business plan in attesa di condizioni simili ed eccezionali.
Quindi che spazi ci potrebbero essere per ridurre i prezzi?
Per modificare la struttura dei costi del vino e per offrire un miglior servizio, ritengo che negli ultimi cinque anni sia emersa una questione importante: quella dei distributori nazionali.
In che senso?
Premetto che Trimani acquista vini sia dalle aziende sia dai distributori. Ma è un dato di fatto che questi ultimi stiano prendendo notevolmente piede e guadagnando spazio a livello italiano. Noi, che lavoriamo più frequentemente con etichette nazionali, notiamo che è sempre più difficile acquistare da un distributore di vino delle bottiglie con prezzi di listino sotto i 10 euro. Se quegli stessi vini fossero al di fuori dal circuito dei distributori nazionali, potrebbero costarci non 10 ma tra 4,5 e 6,5 euro a bottiglia. Quindi, se riesco a pagare 10 euro una bottiglia di vino, acquistata in forma diretta dalle cantine, posso far sì che il mio cliente acquisti un vino di qualità superiore.
E al ristorante?
Nella ristorazione, il discorso è leggermente diverso rispetto all’enoteca, perché la mescita del vino comprende l’aperitivo al bancone o al tavolo, un ristorante che può essere panoramico, con una cucina eventualmente stellata. I prezzi, in questo caso, hanno una dinamica differente. Ma il consumatore sa cosa si aspetta.
Come è cambiato l’atteggiamento dei clienti negli ultimi anni?
Non abbiamo dati sufficienti per poter fare delle proiezioni esatte. Ma posso dire che i clienti migliori, quelli curiosi e appassionati, reagiscono alla crisi acquistando non più 3 ma 2 bottiglie, oppure passano da noi in enoteca non 3 ma 2 volte a settimana. Però, va detto che prima di fare un downgrade sulla qualità dei vini, preferiscono abbassare la frequenza d’acquisto. Siamo, quindi, in uno scenario in cui tutti cercano alternative a prezzi più bassi. E, da questo punto di vista, Assoenologi sa bene che non ci sono tutele dei venditori al dettaglio, come noi, che siamo a contatto col pubblico. Il risultato è che quando le cantine decidono di vendere il proprio vino, se non lo compro io lo comprerà una qualche insegna del canale moderno. Pertanto, anche tante affermazioni di principio vanno a cadere.
E come enoteche e wine bar Trimani come vivete questo calo dei consumi?
Il momento economico è, diciamo, impegnativo. Per i negozi targati Trimani, il bilancio è condizionato dal privilegio di essere nel centro di Roma ma anche dal limite che siamo estremamente specializzati e di piccole dimensioni. Posso dire che dal lontano 1988 ho vissuto diversi momenti difficili. E ricordo che non attualmente non c’è in Italia una associazione che rappresenti la categoria dei punti vendita specializzati e indipendenti come il nostro. Nel vino esiste e il modello è quello della Fivi.
Quali sono, a suo avviso, gli elementi di crisi del vino italiano?
Uno dei fattori cruciali della crisi del vino italiano è sicuramente la sovrapproduzione. Ed è così da decenni: un lasso di tempo in cui nessuno, dalla politica alle imprese, ha voluto o saputo fare qualcosa.
Come rilanciare il mercato, se questo è possibile?
La grande operazione da fare per risolvere il momento di crisi è riportare il vino al centro della nostra cultura materiale. Ovvero, considerarlo fondamentale della dieta. Sappiamo che l’etanolo in sé non è salubre, ma siamo in preda a una ossessione sanitaria e securitaria. per cui anche chi esce a piedi da una degustazione di vino può essere un problema per la società. La sicurezza sulle strade, sia chiaro, va salvaguardata ma da novembre 2024 è accaduto qualcosa di negativo col nuovo Codice della strada. Di fatto, quello che per anni è stato uno slogan secondo cui “bere meno ma bere meglio” non vale più. Perché, oggi, bere meno di così non è possibile. Evitiamo almeno che i consumi continuino a scendere, dal momento che sembra antistorico farli aumentare.
In che modo?
La mia indicazione è separare assolutamente, come in un fossato difeso da coccodrilli, il vino da qualsiasi altro prodotto alcolico. Il vino è agricolo, culturale-valoriale, è prodotto prevalentemente da realtà molto piccole. Quindi dietro ci sono familiari e opportunità di lavoro e reddito che poche altre attività agricole riescono a offrire.
E gli altri settori del beverage?
Il settore birre e superalcolici è formato da imprese che sono molto più concentrate.
Che ne pensa del segmento no-low alcol?
Non sono convinto che possano essere una soluzione. Chi ama il vino non può che considerarli un prodotto appena confinante col settore vitivinicolo. Per il resto, è un altro mestiere. Perché si prendono eccedenze, con operazioni costose e invasive dal punto di vista della sostenibilità, e poi si dà un po’ di trucco e di parrucco ed il gioco è fatto. Ma tutto questo col vino non c’entra niente. Personalmente, faccio di tutto per non promuoverli.
E se un cliente li chiede nei vostri wine bar?
Proponiamo altri sistemi. Facciamo, ad esempio, dei cocktail a bassa gradazione, usando pochi centilitri di gin concentrato, con molta più acqua tonica. Si possono utilizzare anche bevande aromatizzate e con una base acetica. Ritengo che l’esigenza della riduzione dell’alcol si possa risolvere in altri modi. Certamente, non mi interessa il vino dealcolato delle multinazionali.
Allora, come avviciniamo i nuovi consumatori, in particolare i più giovani?
Cercando di offrire vini che siano non solo di qualità riconoscibile ma che possano essere raccontati in modo semplice, senza dover illustrare alcun albero genealogico o chissà cos’altro su una bottiglia. Usando termini descrittivi facili, come fresco, morbido, leggero, fragrante, strutturato. La comunicazione va cambiata.
Chiudiamo con un altro tema attuale: l’idea della mancia obbligatoria al ristorante
Invece della mancia obbligatoria, che sarebbe vista malissimo dai clienti, penso che potrebbe essere più interessante approfondire e implementare una forma di retribuzione correlata ai risultati dei dipendenti del mondo della ristorazione. Se sento parlare di mancia obbligatoria dico che prima dobbiamo agganciare lo stipendio dei dipendenti a parametri quantitativi e qualitativi, in base a risultati verificabili. Cinque anni fa, la mancia in Italia non si poteva fare. Mentre oggi sembra essere diventata la soluzione per tappare altri buchi.
Paolo Trimani
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