C di cicoria, non di caviale. Ce lo ripetiamo in testa mentre intervistiamo Domingo Schingaro, classe 1980, barese, dal 2016 firma la ristorazione di Borgo Egnazia in Puglia (oltre a essere uno dei volti di GamberoRossoTV). È rientrato in quel di Fasano, tra gli ulivi della Valle d’Itria, dopo aver lavorato tra Londra, Bangkok, il Nord Italia. «Quando sono partito, vent’anni fa, qui non c’era nulla. Nessun cinque stelle lusso. E anche poca apertura mentale sul lato gastronomico».
Oggi gli stilemi – soprattutto quelli del lusso – stanno cambiando in maniera repentina. «Possiamo esprimere un’identità in cucina senza scimmiottare i soliti canoni stereotipati. Vi faccio un esempio: mi chiedono il wagyu? Servo gnumareddi. Ma alla Frasca, la nostra trattoria. Al Due Camini, il nostro ristorante gastronomico, oggi non abbiamo più carne: solo vegetali», spiega Domingo.”
Il suo fine dining è agricolo. Tecnico. Contraddittorio. Racconta bene l’evoluzione di una buona fetta dell’alta ristorazione italiana e internazionale, che riscrive i propri modelli produttivi e intercetta nuove sensibilità. I clienti? Italiani, ma soprattutto stranieri. Qui arrivano da ogni parte del mondo. E si aspettano Champagne, caviale, aragoste lucidate. «Ogni tanto qualcuno rimane deluso. ‘Mi aspettavo qualcosa di più ricercato’, dicono. Ma poi assaggiano. E si ricredono».
Chi arriva in un resort costruito da zero – come spesso si dice di Borgo – pensa a un’operazione di plastica. Ma la sostanza sta nel modo in cui un luogo viene abitato. «L’identità si costruisce anche in un posto nuovo. Non è un diritto di nascita. Noi abbiamo deciso di non scendere a compromessi».
Schingaro non alza la voce. Ha un profilo più basso rispetto a tanti colleghi più rumorosi. Ma in un panorama dove tutti parlano di identità e poi servono zucchine a dicembre, la sua cucina ha un peso specifico reale. Il menù degustazione? C’è, ma lo sconsiglia. «Preferisco che si scelga dalla carta. Ogni vegetale ha tre rappresentazioni: un piatto principale e due side. Così capisci la nostra filosofia. Così entri nel lavoro che c’è dietro».
Un giorno protagonista è la cipolla, un altro il pomodoro, un altro ancora la cicoria. «Un piatto fatto oggi può non essere lo stesso fra tre giorni. Cambiano le varietà, cambiano le maturazioni, cambia tutto. È una cucina instabile, ma viva. E noi le stiamo dietro con un lavoro continuo. Non puoi imporre al vegetale i tuoi tempi. Devi rispettare i suoi».
Nel piatto finiscono ortaggi coltivati in casa o selezionati tra piccoli produttori. Quest’anno solo di pomodori ne sono stati piantati 250 tipi. «Non li metto tutti in carta, ovviamente, ma scelgo quelli che in quel momento funzionano. Bastano due giorni di sole in più o in meno e cambia tutto. Il gusto vira». Anche le cicorie arrivano da tre zone diverse della Puglia. Una è dolce, una croccante, una ti tira giù la lingua. «È un modo per far sentire la differenza che il mercato ha provato a cancellare».
«Abbiamo sempre fatto vegetale. Anche quando avevamo il menù con pesce e carne, i vegetali erano la maggioranza». La svolta è arrivata con La Calcia, il bistrot estivo di Borgo Egnazia, pensato per offrire un’alternativa green e rilassata. «Facevamo 60 coperti a sera. Quando ho visto che funzionava, ho chiuso quello e ho portato tutto qui, al Due Camini».
Il salto non è stato solo produttivo, ma culturale. In una regione dove l’idea di verdura al ristorante coincide ancora spesso con un piatto di melanzane grigliate, scegliere il vegetale come centro vuol dire rischiare. «All’inizio qualcuno si arrabbiava. Non capiva. Ora vediamo più curiosità, più apertura. Ma ci vuole pazienza. E coerenza». Anche la tecnica serve. Molta. «Lavoriamo ogni parte della pianta. Fermentiamo, tostiamo, cuociamo sottovuoto, riduciamo, affumichiamo. Ma non per mostrare quanto siamo bravi. Perché se vuoi tirare fuori gusto da una foglia, devi farle il taglio giusto, usare la temperatura giusta, sapere come tenerla viva».
Il piatto simbolo? Le ruote pazze alla cipolla. Un piatto che sembra semplice. Non lo è. «Una sfoglia sottilissima, arrotolata a spirale, farcita con una cipolla rossa di Acquaviva cotta dodici ore. Dentro c’è anche un fondo vegetale tostato, una manteca affumicata, una nota acidula che bilancia». La ruota cuoce al vapore, poi viene passata in forno, infine rigenerata in padella. «È un piatto che non cerca il colpo di scena. Ma ti resta in testa. Te ne mangeresti un quintale». Una volta un cliente ha chiesto: “Posso baciare mia moglie dopo questa cipolla?” Schingaro ha risposto: “Certo. Ma poi non vi staccate più”. Ci ride sopra, ma sa che il punto non è la battuta. È il riconoscimento. «Se riesci a fare una cipolla memorabile, hai fatto centro».
Il complimento più inaspettato è arrivato da un cliente pugliese. «Uno del posto, che conosce la regione, ma non era mai venuto. Pensava fosse il solito posto da fighetti, con le nonne in vetrina e le bottiglie da 600 euro. Poi ha cenato. E ha scritto un post. “I piatti non sono affatto internazionali, come ci si potrebbe aspettare. Sono pugliesi, puliti nel gusto e profondi nella percezione. Sorprendono e mettono d’accordo sia i più veraci autoctoni, sia i più navigati gourmet. Nella vita è bello essere smentiti, perché ci si rende conto di quanto il pregiudizio renda ciechi e ignoranti gli animali“. L’ho girato a tutta la brigata. Ho detto: forse non ce ne stiamo accorgendo, ma stiamo facendo una piccola rivoluzione». La sfida è riscrivere il concetto di lusso. Non più il prodotto raro, ma il prodotto giusto. «Il tempo che dedichi a una foglia. Il brodo fatto con gli scarti. La cicoria coltivata in collina. Quello è lusso». Anche la colazione segue la stessa logica. Due versioni, una pugliese e una internazionale. «Niente salmone. Usiamo trota. La compriamo cruda, la mariniamo, la affumichiamo. Il bacon lo facciamo noi, da maiali neri lucani. Anche il prosciutto cotto. Le torte sono porzionate a fette piccole, per evitare sprechi». Chi si lamenta di più? «Spesso gli italiani. Gli stranieri sono più curiosi. Più disposti a lasciarsi guidare».
Il paradosso è che oggi è più facile trovare un piatto vero in un ristorante di lusso che in una trattoria. «In Piemonte anche il bistrot più sperduto fa i ravioli in casa. In Puglia si apre la busta». Schingaro non si trattiene: «La maggior parte delle trattorie non cucina. Lessa. Le cime di rapa? Sempre quella varietà grossa, che rende tanto e sa di poco. Ma nessuno dice niente. Perché costa poco, dura tanto, non dà problemi». Quando gli chiediamo se gli chef pugliesi fanno gruppo tra di loro, si assopisce un attimo. E spostiamo l’attenzione su ciò che occorre fare. «La Puglia ha un problema infrastrutturale. È una regione lunga e stretta, senza alta velocità, con territori che vivono solo tre mesi l’anno». La Valle d’Itria regge. Bari anche. Ma nel Gargano e nel Salento costiero tutto è ancora troppo legato alla stagione. «Se non destagionalizziamo, non si crea un sistema». E la ristorazione, dice Schingaro, deve assumersi una responsabilità. «Non solo verso il cliente. Verso il territorio. Il vegetale è la nostra forza. Non possiamo trattarlo come un riempitivo». Un pomodoro, dice, deve avere “umami”. «Deve farti chiudere gli occhi e dire: cazzo, ma cos’è sta roba?»
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