La distribuzione è uno degli ingranaggi delicati della catena commerciale del vino che ultimamente è nell’occhio del ciclone quando si parla di prezzi troppo alti dei vini e di ricarichi eccessivi per i consumatori. Al recente appello dell’Assoenologi al mondo dell’Horeca a rendere più accessibile un’etichetta di buon vino, hanno risposto gli enotecari, i rappresentanti del mondo della ristorazione, con la Fipe-Confcommercio, e ora lo fanno anche i distributori.
In Italia, sono numerosi i player sul mercato, alcuni sono riuniti in sigle come la società Excellence (che ha preferito declinare l’invito a parlare), mentre altri agiscono singolarmente, come per esempio Partesa, società del Gruppo Heineken che è attiva nel vino dalla fine degli anni Novanta e che oggi vanta un portafoglio di circa 90 brand, di cui oltre 20 stranieri. Alessandro Rossi, national category manager wine di Partesa, intervistato dal Settimanale Tre Bicchieri del Gambero Rosso, lo dice apertamente: «Bisogna fare qualcosa, perché l’aumento dei vini entry level nelle carte dei ristoranti sta rischiando di allontanare proprio i giovani, che rappresentano i consumatori del futuro».
Partiamo dalla situazione economica. Come è andato il 2024 e il primo semestre 2025 per Partesa?
Dopo una crescita costante negli ultimi dieci anni, compreso il periodo post-Covid, il 2024 è stato, come per tutti, un anno caratterizzato soprattutto nell’ultimo trimestre da una discesa degli acquisti, a cui ha contribuito anche l’effetto degli allarmi collegati al nuovo Codice della strada. Nel 2025, la debolezza del potere d’acquisto delle famiglie si è protratta per i primi quattro mesi, ai quali è seguita un’estate difficile, con un’affluenza nel segmento del fuori casa concentrata nei fine settimana, pur essendo in un periodo di vacanze.
Non solo mercato interno, ma le vendite estere sono minacciate dai dazi Usa. Come si fa con tutto questo vino a disposizione e giacenze alte per le Dop?
A livello commerciale, non stiamo avvertendo per ora gli effetti della sovrapproduzione. E, per quanto riguarda gli Stati Uniti, coi quali sono costantemente in contatto, posso dire che i dazi non sono stati ancora spalmati sul mercato al dettaglio. Ci sono stati certamente degli extra acquisti di vino a inizio 2025, ma il peso del dazio al 15% attualmente è suddiviso tra il produttore che fa uno sconto e il distributore che ha un minor profitto. Non ci sono ricarichi sui consumatori. Tuttavia, gli statunitensi stanno affrontando un’inflazione fortissima e di conseguenza stanno acquistando meno vino.
In questo scenario, come vi state muovendo?
Premetto che il nostro tipo di distribuzione è anomalo nel mercato italiano, nel senso che possiamo definirci forse gli unici in Italia che operano sul modello di tipo americano. Vale a dire: con wine specialist che lavorano solo per la nostra società, con mezzi di proprietà e con magazzini totalmente dedicati al nostro business.
Che differenza c’è con gli altri?
La maggior parte delle distribuzioni italiane è costituita, in effetti, da cataloghi, ovvero selezioni di prodotti vitivinicoli che vanno in mano ad agenti che sono plurimandatari. Partesa vende per l’80% etichette italiane, altri si sono concentrati, in questi anni, principalmente sulle importazioni estere.
Quindi, a fronte della crisi dei consumi, non ridurrete il portafoglio vini?
Per noi, al contrario, si aprono le porte per un ampliamento del catalogo. La nostra filosofia – da sempre – è consegnare minimi quantitativi a tutti i nostri clienti, garantendo una fornitura costante. Sottolineo che dal post-Covid il nostro portafoglio è cresciuto del 35 per cento.
E qui arriviamo al tema scottante dei prezzi. L’Assoenologi si è appellata alla ristorazione chiedendo di ridurre i ricarichi sui vini per consentire ai clienti un’esperienza accessibile. Che ne pensate?
Premesso che bisogna fare meno pressione sui giovani consumatori, che vanno incoraggiati e guidati al vino, senza giudicarli perché non sono esperti o appassionati, ritengo che la ristorazione negli ultimi anni abbia commesso l’errore di spostare eccessivamente sulla carta vini i suoi margini. Se, 20 anni fa, i ricarichi erano limitati e la carta vini pesava sui ricavi totali per un 15-20%, oggi tale quota è raddoppiata. Essendo, poi, diminuito il potere di spesa della popolazione, soprattutto quello delle nuove generazioni, ci troviamo in una situazione in cui non sono tanto le etichette premium, super-premium o lusso a essere più care al ristorante, bensì il vino entry level. E questo è un problema.
Ci faccia un esempio.
Oggi, in una carta vini al ristorante, difficilmente troviamo una bottiglia sotto i 20/25 euro.
Quindi la ristorazione ha un suo peso sui ricarichi.
Diciamo che se compro un vino a 5 euro, poi non lo devo vendere a 25 euro. Secondo me, la ristorazione dovrebbe puntare molto sul wine by the glass, sfruttando le tecnologie più moderne per la mescita. E non deve cercare di guadagnare solo, o troppo, sul vino.
Qualche enotecario da noi interpellato ci ha fatto notare che il rafforzamento della presenza dei distributori nel panorama italiano sta contribuendo all’aumento dei listini.
Al contrario, il rafforzamento della distribuzione dei vini, soprattutto se in futuro nasceranno società di distribuzione come Partesa, genererà più disponibilità di prodotti e più concorrenza con un effetto ribassista sui prezzi.
foto di jiamin-huang-by-unsplash
Però, attualmente, il mercato non è strutturato in questo modo.
C’è un altro elemento da considerare. La maggior parte dei cataloghi o delle distribuzioni punta molto sull’estero, a partire da vini come lo Champagne, e avendo un rischio di impresa maggiore, deve per forza aumentare i margini di guadagno. Cosa che non accade sui vini italiani. Infatti, sull’Italia ci sono ottimi contratti di distribuzione che consentono di ottenere margini remunerativi anche con prezzi di cessione al trade più bassi.
Veniamo al punto. Ci sono margini per ridurre i prezzi dei vini dal lato della distribuzione?
Sarebbe un grave errore aumentare i prezzi in questo 2025, ma anche diminuirli. Penso che non accadrà nei prossimi mesi e che il 2026 possa essere un anno di stabilità dei listini. E, rispondendo alla domanda, se anche la distribuzione riducesse i suoi margini, per esempio di un 5%, siamo sicuri che saranno ridotti di conseguenza anche nelle carte vini dei ristoranti?
Come se ne esce allora?
Dovremmo fare tutti uno sforzo, a partire dall’Horeca, per far sì che si abbassi quantomeno il prezzo dei vini entry level. In questo modo, daremo una opportunità al futuro consumatore di vino di spendere quei pochi soldi anche nel canale della ristorazione.
Altro tasto scoperto, i futuri consumatori: i giovani. Con quali tipologie avvicinarli?
Penso a Verdicchio, Garganega, Sangiovese, Chianti, Morellino. Tutti vini e denominazioni pure. Prodotti semplici, con evoluzioni e affinamenti più in acciaio e meno in legno, con un alto rapporto qualità-prezzo. Con particolare attenzione ai bianchi con buone acidità. Attenzione, però: se fino a qualche decennio fa le grandi aziende imponevano al consumatore gli stili di consumo, ora bisogna scendere a patti con le nuove generazioni, che hanno un palato più allenato ed evoluto e chiedono un approccio semplice e diretto. Siamo in un momento delicato.
Quindi, non siete contrari al mondo del no-low alcol.
Siamo poco favorevoli al processo no alcol, ma molto favorevoli al low-alcol, perché è una sorta di “back to the past”, un ritorno al passato. Lo ricordo: i grandi riesling e i grandi vini francesi e italiani non superavano i 12-12,5 gradi.
E come la mettiamo col cambiamento climatico?
Non lo vedo come un limite, ma può essere contenuto e guidato attraverso la tecnologia. Alcune zone tardive nella maturazione, ad esempio, ne hanno beneficiato.
Ritiene che l’Italia stia comunicando bene il vino a livello promozionale?
Ci stiamo impegnando, ma dobbiamo adeguarci a un mondo che sta cambiando. Il brand Made in Italy deve essere coltivato per rimanere tale. Oggi, la comunicazione varia in base a fasce di età di 5 anni, con le nuove generazioni che, rispetto al passato, hanno modi di comunicare multipli e differenziati. Ci vorrebbero degli interpreti diversi per far passare lo stesso tipo di messaggio.
Cosa non le piace?
Non mi piace che la comunicazione settoriale sia in mano a presunti influencer, che di fatto non esistono. L’influencer è colui che muove economicamente il mercato. Di veri influencer nel vino ce ne sono stati pochi. Faccio i nomi di Robert Parker-Wine Advocate, Wine Specator, James Suckling e il nostro Gambero Rosso, che secondo me ha più forza all’estero che in Italia.
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