Viticoltura

Si fa presto a dire vitigni autoctoni. Serve un modo per valorizzarli veramente

Il ritorno alle varietà territoriali non deve far perdere di vista l’obiettivo di ottenere vini contemporanei. Tradire la tradizione per salvare la viticoltura

  • 25 Settembre, 2025

Finita l’epoca dei vitigni apolidi detti anche internazionali, coltivati ormai ovunque, i cui vini sono sempre più destinati alla fascia più bassa del mercato e della confusione generata da una pletora di denominazioni d’origine senza tradizioni, né meriti qualitativi, ci si interroga su quale futuro dovrà attendersi la viticoltura italiana. La querelle ancora irrisolta sulla primazia del vitigno sull’ambiente e viceversa, nel determinismo della qualità di un vino appartiene ormai alla storia della viticoltura ed ha visto, fino all’”epoca dei lumi”, il prevalere del luogo di produzione su quello dei vitigni.

Il ritorno dei vitigni autoctoni

J. Guyot per primo, nel 1868, alle soglie della crisi fillosserica, rompe questo assioma con l’affermazione rivoluzionaria «il genio del vino è nel vitigno». Il ritorno sullo scenario mondiale dei vitigni antichi o autoctoni ha riportato in auge il ruolo cruciale del vitigno nella comunicazione del vino, in un’epoca nella quale non si ha tempo per gli approfondimenti geografici e del ruolo dell’aura che ne accompagna l’origine e la storia, nei confronti di un consumo fatto più con il cervello che non con il palato. Di questi vitigni ci si ricorda spesso solo il loro nome perché, curioso, vernacolare: abbiamo ormai dimenticato, a distanza di pochi anni, le sensazioni gustative del loro vino spesso prodotto con tecniche enologiche non coerenti con le caratteristiche del vitigno e la località sperduta dove sono coltivati. Cosa fare allora? Quale cammino intraprendere in un periodo di grandi cambiamenti nei confronti dei consumi, degli stili di vita e non ultimo del clima?

I pericoli della globalizzazione

L’elemento pervasivo in ogni scelta sia essa produttiva o di consumo è la globalizzazione: da molti accettata per l’apporto positivo sulla complessità culturale e sui riscontri mercantili, da altri considerata inquietante e pericolosa e per questo rifiutata. È opinione diffusa tra i produttori ed i consumatori che sia la maggiore responsabile della crescente banalizzazione delle caratteristiche sensoriali dei vini prodotti in tutte le parti del mondo.

Non trascurabile in questo senso anche il ruolo della comunicazione e della critica, fortemente condizionate da tipologie di vini “perfetti”, ma senza anima e che non sanno operare quell’”elogio dell’imperfezione”. Imperfezione che non è difetto e che spesso è alla base di un vino controcorrente, di un vino innovativo.

Tradire la tradizione

Ma la globalizzazione ha operato anche in direzione opposta creando nuove occasioni per forme di viticoltura alternative, come la biodinamica, nel tentativo di mantenere espressioni di produzione di vino che le pressioni del progresso scientifico tendono a sconvolgere. Ma rivolgersi alle filosofie “new age” per produrre vino non ha molto senso, così come rifugiarsi in una tradizione che è vista come l’antidoto ai mali prodotti dalla ricerca. Nulla di più falso perché, come dicevano Hossbawn e Ranger in L’invenzione della tradizione, le tradizioni sono sempre state inventate e reinventate per soddisfare gli scopi di persone che volevano, attraverso queste, legittimare il loro potere. A chi invoca il ritorno della tradizione nella produzione di vino, si può invece rispondere che il modo più efficace per attuarla è quello di un suo “tradimento fedele”.

Il paradigma interpretativo che ha mosso nei secoli il progresso viticolo è stato l’innovazione genetica, rappresentata dalla circolazione varietale e dalla selezione degli incroci intenzionali e spontanei.

Molti autoctoni sono rimasti nell’oblio

Dopo circa quattro lustri di grande interesse per i vitigni autoctoni, da parte delle aziende viticole, della ricerca e dei consumatori, facendo un bilancio dei risultati raggiunti in termini di ricadute economiche si deve purtroppo constatare che in termini di valorizzazione dei vitigni e dei territori interessati, questi non appaiono particolarmente esaltanti, anche se si devono fare delle doverose distinzioni, che vedono alcuni vitigni (pochi) raggiungere buoni risultati ma, purtroppo, molti altri rimanere nell’oblio. È, quindi, necessario disaggregare le considerazioni anche per meglio indirizzare gli sforzi in futuro.

In sintesi, dei mille e più vitigni autoctoni italiani, quelli di qualità (almeno per la produzione di un vino destinato a un consumatore moderno) sono molto pochi, forse non più di un centinaio. Questo non toglie che tutti abbiano un grande valore per la conservazione della biodiversità e per un impiego nei programmi di miglioramento genetico. Solo alcuni vitigni, sostenuti da Doc o Docg di successo, come il nebbiolo per il Barolo, Barbaresco, Valtellina o il sangiovese per il Brunello, Chianti, Nobile, per fare qualche esempio, sono in espansione.

 

La polarizzazione della viticoltura italiana

Alcuni vitigni antichi sono stati valorizzati non per merito delle istituzioni ma per la passione di pochi viticoltori (come il timorasso da Walter Massa, il teroldego da Elisabetta Foradori, il sagrantino da Marco Caprai). Pochi sono stati i vitigni emersi dall’oblio in questi ultimi anni e che sono stati iscritti al Registro Nazionale dei vitigni autorizzati alla coltivazione, la condizione sine qua non per essere moltiplicati e piantati.

Alla base di questa complessa fenomenologia, vi è la polarizzazione della viticoltura italiana che è passata in questi ultimi anni per effetto della globalizzazione dei mercati internazionali da una realtà diffusa, rappresentata da una molteplicità di piccole denominazioni, dove erano i vitigni autoctoni l’elemento qualificante dei loro vini, ad una viticoltura polarizzata ad imitazione di quella francese, dove cinque-sei denominazioni note soprattutto all’estero rappresentano gran parte del vino italiano di qualità.

Come valorizzare le varietà autoctone

Questa opacità nelle scelte del consumatore ha provocato la disaffezione soprattutto dei viticoltori più anziani, il cui reddito si è progressivamente eroso e che ha fatto trasferire le autorizzazioni d’impianto dalle regioni meridionali alle ricche viticolture del nord-est, dove vicino a vitigni autoctoni affermati come la glera o la corvina, sono in continua espansione il pinot grigio e i vitigni per la preparazione di vini spumanti.

In questo scenario economico-sociale, inoltre, sono mancate alcune iniziative importanti da parte dell’Università, atte a valorizzare il patrimonio viticolo autoctono attraverso la ricerca viticola con la proposta di modelli di coltivazione adattati ai vitigni antichi come il controllo della produzione/ceppo, le dinamiche dei processi di maturazione, gli effetti del cambiamento climatico per di valorizzare le peculiarità compositive di questi vitigni, spesso inadatte, come le tipologie dei tannini, l’acidità, la stabilità del colore, a fornire vini moderni e una enologia varietale capace, a questo riguardo, di proporre trafile di vinificazione adeguate.

Il professor Attilio Scienza è il coordinatore scientifico del Corso di Alta formazione
Il vino del futuro del Gambero Rosso

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