Oltre confine

"In Cina il business è in calo, con Pechino spaesata dalla crisi". Intervista allo chef italiano più premiato d'Asia

Tra costumi locali, costi di gestione, classifiche internazionali e stereotipi che investono la cucina italiana il patron di Otto e Mezzo Umberto Bombana ci ha raccontato come si lavora nel Sud-est asiatico

  • 29 Settembre, 2025

A livello internazionale gli chef italiani non sembrano raccogliere più il consenso del passato, scivolati di piazzamento nelle varie graduatorie, lontane dai fasti che li vedevano protagonisti non molto tempo fa. Gli onori della cronaca spettano ora a registri meno “codificati”, movimenti emergenti di altri paesi, che rappresentano una novità nel panorama gastronomico mondiale. E non è solo una questione di cifra stilistica. Eppure, varcati i confini nazionali, c’è chi porta ancora in alto la bandiera del nostro paese, promuovendo una cucina abbastanza classica, indiscutibilmente golosa e dalle forti radici italiche. Con il fine dining Otto e Mezzo di Hong Kong lo chef Umberto Bombana ha convinto anche gli ispettori della Rossa ottenendo il riconoscimento massimo. Ma non è la sola delle sue insegne ad aver avuto successo. Ce ne sono di convincenti, sparse qua e là nel Sud-est asiatico, da Macao a Bangkok.

È dal 1993 che il pluripremiato executive chef si è stabilito in Asia. Approfittando della lunga esperienza da lui maturata all’estero, lo abbiamo intervistato per cercare di capire meglio come si lavora in Oriente e quale sia la visione dominante della nostra cucina lontano dal Vecchio continente.

Lo chef Umberto Bombana (a sinistra) @ottoemezzobombana

Intervista a Umberto Bombana, lo chef italiano più premiato d’Asia

All’estero, il suo è l’unico ristorante italiano ancora con le tre stelle. Qual è il segreto per rimanere ai vertici?

Il desiderio di partire dalla più grande materia prima e trasformarla in modo che venga esaltata attraverso tecnica e gusto “italiano”. Per garantire il livello però il team è fondamentale, così come lo è il confronto con esso; forse, la cosa più importante. La squadra si aspetta che tu sia sempre al top. Se non hai questa attitudine, ti scarta. Essere a contatto con il cliente poi è divertente. Cucinare per lavoro è di per sé pesante. Se non lo si fa con piacere, alla fine non ci si riesce a esprimere veramente. Un management di questo tipo viene quasi spontaneo, perché si è sospinti dalla passione, dalla voglia di fare.

Dunque, sinergia fra sala e cucina. Ma da tempo ci stanno raccontando che la seconda è più importante…

In realtà, la sala è quasi più importante della cucina. Se mancano la cortesia e l’empatia dei camerieri — il savoir faire tutto italiano di far ospitalità — avere bei locali, degli interni progettati dai più famosi designer del mondo, diventa inutile. Il cliente non perdona mai l’arroganza del personale di sala, neanche davanti al piatto più buono del mondo.

Tra i primi dieci della classifica The World’s 50 Best manca all’appello l’Italia. C’è un motivo?

È bello il lavoro che fanno alla 50 Best: danno visibilità al fine dining. Resta pur sempre figlia di un “ciclo”: si entra in graduatoria per un po’, e come si sale di posizione, si può scendere tranquillamente. Anche perché la new wave degli chef cerca di farsi spazio.

Intende dire che son piazzamenti che rispecchiano le tendenze culinarie più che il merito?

Un ristorante, uno chef devono godere del consenso nel settore, guadagnarsi i voti di giornalisti e critici. Perciò, è come se contemplasse una campagna elettorale.

Le chiedo quindi se all’infuori del perimetro nazionale la cucina italiana gode ancora di appeal?

Sì, purché si abbia identità. Soprattutto all’estero, è necessaria. A differenza di altre che attingono qua e là, e a prescindere da quanto sia buona ciascuna, la cucina italiana, al pari di quella francese, giapponese — Bombana inserisce pure quella thailandese (n.d.R) — hanno un registro codificato; per questo motivo, sai sempre cosa ti arriverà al tavolo.

Ma alla fine non è che noi italiani sopravvalutiamo oltremodo la nostra eredità culinaria?

No, se si riescono a reperire altrove pecorini buoni come quello sardo o romano. Sono produzioni risultato di migliaia di anni di perfezionamento. La tradizione è ricchezza. Detto ciò, occorre essere aperti mentalmente, imparare ad amare anche tradizioni e culture altrui. Non bisogna pensare che la nostra cucina sia superiore alle altre.

In trent’anni è cambiata la percezione della nostra cultura gastronomica lì?

In media, è cambiata: hanno riscontrato un miglioramento nella tecnica. I sapori base, i grandi classici, restano però sempre quelli. Come gli spaghetti al pomodoro, che non cambiano mai. Magari li puoi fare meglio adesso facendo leva su una variazione di pomodori, ma non è che trent’anni fa non si mangiava bene e ora sì.

Tubetti di pasta con astice e zest di limone amalfitano @ottoemezzobombanahk

Stereotipi locali della cucina italiana?

Non mi sembra ci siano più. Pure le pizzerie si sono date un profilo più moderno. Non si trovano più quelle con i tovagliati a quadretti e i fiaschi di vino impagliati appesi. Poi, sì, magari ce n’è ancora qualcuna con il Vesuvio e Maradona (allude al fatto che in tal caso sarebbe perlopiù marketing n.d.R).

In Cina, paese incredibilmente vasto ed eterogeneo, come si lavora invece?

Le metropoli cinesi sono cresciute come il resto dell’Asia. I cinesi viaggiano molto, pure per lavoro, e ormai conoscono tutto; sanno mangiare “bene”. In città come Shanghai l’identità culinaria diventa cruciale. E anche qui apprezzano Otto e Mezzo Bombana.

A Pechino ha chiuso. C’è qualcosa che non ha funzionato?

Il locale è andato bene per più di dieci anni. Durante il Covid però sono uscite fuori delle criticità, con la gente che, non uscendo più di casa come prima, ha iniziato a frequentare meno lo shopping mall in cui ci trovavamo. Abbiamo deciso allora di chiudere. In fin dei conti, anche un ristorante ha una vita, un proprio ciclo. Avremmo pure la possibilità di riaprire a Pechino, in altre location, eppure non è un’ipotesi che al momento vorrei considerare. Abbiamo da poco aperto a Bangkok. Peraltro, stanno arrivando diverse richieste dal Middle East, che è in forte crescita. Penso infatti che faremo qualcosa a Riyadh.

Che tipo di criticità?

Dal Covid il business è in calo. Le chiusure hanno interessato perfino alberghi 5 stelle lusso. In generale, in Cina, dopo il boom economico degli ultimi trent’anni, si è iniziato a riscontrare uno stato di spaesamento inedito: si vive la prima recessione. In tutto ciò — non so quali siano le ragioni — Pechino ha risentito di più della crisi rispetto a Shanghai o Macao.

Hong Kong ha uno statuto autonomo. Cosa implica questo regime speciale per chi fa ristorazione?

Non c’è alcuna tassa di importazione sul cibo. Ciò permette di lavorare con una materia prima fantastica, i migliori prodotti al mondo. Una dimensione internazionale con fine dining pluripremiati.

Allora conviene intraprendere un’attività imprenditoriale a Hong Kong…

Sotto questo specifico aspetto, sì. Il prezzo di mercato di uffici e abitazioni però è molto caro. Considerando già significative le varie voci di spesa come materia prima, personale ed energia, un ristorante non può essere gravato pure da un affitto caro. Pur non avendo i prezzi d’importazione di alcune città, non potrebbe sostenere una location costosa. Ancor di più se situata nel centro cittadino. A meno che il proprietario non venga incontro al titolare. In quel caso, lo farebbe semplicemente per il piacere di ospitare un ristorante buono o famoso.

Il ristorante più importante è al centro di Hong Kong. Lei sopravvive alle tariffe in che modo?

Otto e Mezzo si trova in corrispondenza dell’incrocio più prestigioso, lì insieme ai grandi brand. Ma ho raggiunto un compromesso con la proprietà dello stabile, interessata a garantire nell’area una proposta food and beverage di livello. Diversamente, non sarei stato in grado di sostenere un tale affitto.

Comportamenti a tavola della clientela asiatica che a noi occidentali risulterebbero bizzarri?

Ogni tanto vedo qualcuno mangiare il pane con la forchetta. Non si tratta comunque di una consuetudine, visto che tra cinesi e thailandesi i commensali sono di tipo internazionale, abituati a girare e sperimentare i cibi europei e italiani. Sì, non c’è giorno in cui, incalzati dai clienti, non suggeriamo trattorie e ristoranti, su Roma e altre città.

È vero che in Asia i cuochi son più disposti al sacrificio?

No. Da queste parti, come in Europa, ora tutti vogliono fare il direttore o il manager; mentre prima la manualità rappresentava un sapere artigiano tramandato ed esercitato con passione. La verità però è che, se si ha ‘fame’, si è disposti a fare tutto. Dipende dal background del singolo.

Anche qui la ristorazione di lusso inizia a ricercare una formula più leggera e disimpegnata?

A essere sinceri, questo è sempre stato il segreto del successo raggiunto dal mio ristorante. È da più di quindici anni che è così.

Quindi in terra straniera la forza della cucina italiana è sempre stata la sua semplicità?

Esatto. Poi magari subentrano delle mode, come quella di servire 5 stuzzichini per aperitivo. Una formula che io non adotto — preparo invece una piccola entrée di altissima fattura — visto che la gente al ristorante non intende fare l’aperitivo, oltre a non voler spendere più di tanto. In Europa, al contrario, è diffusa. Dipende chiaramente da dove ci si trova; a Hong Kong, in centro città, gli ospiti sono restii a fermarsi molto tempo. Non c’è l’abitudine di prendersi mezza giornata.

Se nelle metropoli del Sud-est asiatico la vita è più frenetica, il tempo medio di permanenza a tavola qual è?

A cena, al massimo due ore. A pranzo, un’ora e mezza.

@ottoemezzobombanahk

La chiamano Re del tartufo, che serve quasi tutto l’anno. Un escamotage per alzare il prezzo?

Ho trasmesso ai cinesi il fermento italiano per la stagione dei tartufi. Sin da quando mi sono trasferito in Cina, ho servito diversi piatti arricchiti dal tubero, con l’idea di regalare loro momenti magici a cavallo delle festività, fra novembre e dicembre. Poco dopo, il suo sapore ha preso piede. Mangiare il tartufo è diventato uno status e adesso tutti quanti i ristoratori locali — chi meglio, chi peggio — lo adoperano. A seconda della sua stagionalità, fra Italia, Francia e Australia, riesco a importarlo molti mesi all’anno.

Lei ha delle vere e proprie stanze di frollatura, una tecnica di maturazione su cui gli chef stanno facendo molta ricerca ora…

Tutte le proteine richiedono un certo periodo di frollatura, necessaria affinché la carne si rilassi. L’anatra, per esempio, dopo una settimana di maturazione, risulta più tenera e gustosa. È vantaggiosa pure per il pesce che, asciugandosi, rilascia quell’acqua interna cui si attribuiscono quei sentori poco gradevoli di “pesciume”, ciò che gli inglesi riconoscono come fishy. Ma a me non piace frollare a lungo. Perciò non faccio grossi invecchiamenti sul pesce; giusto di 3 o 4 giorni.

C’è un prodotto proveniente da queste celle che sta raccogliendo particolare consenso?

Il culatello sta andando benissimo. Il prosciutto crudo però resta il più famoso e conosciuto dai clienti. Che sia di San Daniele, Parma o Langhirano. Piace pure quello di qualche maialino nero. Penso alla Cinta Senese. Del resto, è un momento in cui è aumentata la richiesta di queste particolari selezioni.

C’è chi sostiene che lo chef responsabile debba stare sempre in cucina per garantire il livello del ristorante…

Dipende dalla visione imprenditoriale, da quella personale. Io, per dire, ho una decina di locali. Ciascuno ha il proprio cuoco. Eppure, quando sono in sede, assaggio tutti i piatti. Non riesco a interpretare il ruolo di executive chef mettendomi dietro a una scrivania, limitandomi cioè a delegare a dei miei fedelissimi. La squadra deve percepire la personalità (e vicinanza) di chi è al comando.

È tornato in Italia per investire nel vino e non come ristoratore…

Mi sono innamorato della Valcamonica. Nello specifico, di queste vigne abbandonate, data la difficoltà di gestione dei terrazzamenti. Un posto davvero affascinante con delle cantine risalenti al Medioevo. Il mio socio Enrico Togni sta preservando alcuni uvaggi autoctoni, quasi dimenticati, piantati decenni fa, dall’Erbanno alla Negrara bresciana. Tra l’altro, in quella zona cresce in maniera naturale il tartufo invernale, il Tuber Melanosporum. Potremmo pure tirarci fuori una tartufaia e magari sviluppare una microeconomia locale.

In Italia non si guadagna più attraverso la ristorazione. Meglio vendere vino?

Allo stato attuale, si incontrano difficoltà in entrambi i comparti. Gli utili nel food non sono ancora tornati ai livelli antecedenti la pandemia; allo stesso tempo, non sono pochi i produttori che hanno più vino in cantina. L’azienda vinicola Togni Rebaioli è stata un’iniziativa imprenditoriale isolata, legata soprattutto al fascino che suscita in me quel territorio, e alla possibilità di affidare la supervisione a Enrico, che lavora in biodinamico o seguendo metodi naturali. Non escludo che in futuro si possa pensare a un progetto più gastronomico. Dovrei tuttavia individuare un socio in grado di gestirlo, non potendo correre qua e là. Mi piacerebbe però tantissimo fare ristorazione in Italia.

La cultura del vino in Estremo Oriente le sembra in crescita?

Senza dubbio. Gli asiatici son molto interessati al mondo vitivinicolo. Stanno cominciando a visitare produttori e cantine italiane.

Che tipo di etichette?

C’è apprezzamento per l’Etna Rosso, non solo per i grandi nebbioli. La scelta di alcuni clienti viene condizionata dalla curiosità per i vitigni autoctoni italiani. Chiaramente, ci sarà sempre qualche amante dei Supertuscan o qualcuno alla ricerca di grandi bottiglie. Ma i vitigni internazionali non sono più tanto richiesti. Per capirci, i merlot e i cabernet sauvignon sono in flessione. In generale, si insegue la piccola produzione, uvaggi particolari del territorio.

 

 

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