Al cinema

Parlare di cibo senza parlarne. Il film Tre ciotole ci riesce benissimo

Il film, tratto da libro di Michela Murgia, parla di amore, perdita e dolore attraverso il rapporto con il cibo, ricordandoci che l’uomo è sempre ciò che mangia (o non mangia)

  • 10 Ottobre, 2025

Marta cinge la vita di Antonio che guida spericolato il motorino per le vie caotiche di Roma. Marta è calma, Antonio agitato. Marta chiede di fermarsi a prendere dei biscotti che, poi, arrivati a casa, inizia a sgranocchiare uno dietro l’altro. Antonio la rimprovera di mangiare male, di non apprezzare il cibo buono.

La cifra dell’atteso film “Tre Ciotole” – di Isabel Coixet con Alba Rohrwacher ed Elio Germano tratto dal romanzo omonimo di Michela Murgia – è chiara fin dalle prime battute: separazione, dolore, malattia sono solo una parte della storia. L’altra è fatta di cibo (anche quando non c’è). Ed è il cibo che, in silenzio, dà il senso più profondo all’intero film, in una dicotomia continua tra amore incondizionato attraverso l’atto del cucinare e indifferenza, se non rifiuto, per il nutrimento.

Tre Ciotole, la storia del film

La storia è quella di Antonio, uno chef e Marta, un’insegnante di educazione fisica. Stanno insieme da sette anni e condividono la stessa casa. Lui si prende cura di lei, anche a casa, cucinandole piatti che lei apprezza, anche se è naturalmente portata verso il cibo spazzatura. Dopo una serata storta, in cui lei non mangia nulla, si capisce che qualcosa si è rotto: Antonio decide di lasciare Marta e la vita della donna cambia radicalmente. La perdita dell’amore le provoca un grande dolore. La nuova vita, non scelta, diventa faticosa, e getta Marta in una grande solitudine che si traduce in perdita di appetito, vomito e nausee continue. Il tutto costellato da mattinate a scuola a cercare un senso alla vita negli studenti e da brevi chiacchierate con un collega (interpretato da Francesco Carril, protagonista di “Dieci Capodanni”), che in più di un’occasione le parla di cibo: la pizzata da fare con gli studenti o il suggerimento di leggere “L’uomo è ciò che mangia” di Ludwig Feuerbach. Un libro che arriva proprio quando a Marta viene diagnosticato un cancro al quarto stadio.

Il cibo come dimensione emotiva di quel che siamo

La conversazione sul cibo come definizione di quel che siamo porta Marta a cambiare rotta. Comincia la cura contro il cancro e di pari passo la cura del corpo attraverso un modo diverso di mangiare. Non più wurstel crudi e ketchup ingurgitati a caso, o panini con formaggio e maionese, la preparazione del cibo per la protagonista diventa quasi meditativa: mangia sano, sceglie agrumi e verdure, assapora un gelato senza affanno. E anche quelle tre ciotole, ricevute al supermercato come premio di una raccolta punti, si rivelano un aiuto per dare il senso della misura del cibo.

Il nutrimento diviene metafora della vita, in quel continuo voler mettere in ordine delle cose che poi vengono regolarmente scombussolate. Come il cibo. Una pietanza impiattata in modo geometricamente perfetto, un pasto diviso in ogni ciotola, un panino farcito inserendo un ingrediente dopo l’altro; tutto questo ordine del cibo finisce inevitabilmente in un unico posto, lo stomaco, quel grande frullatore che rimescola le carte in tavola e decide, a suo, modo di riproporre nutrimento o scarto al corpo come meglio desidera o come l’emotività impone.

«Lo stomaco è il secondo cervello», dice la gastroenterologa a Marta che vomita quando Antonio la lascia. La stessa Marta che arrabatta un panino quando Antonio non le prepara più nulla, ma che rimette mani in quella cucina quasi asettica quando decide di curare mente e corpo. Ed è qui che ritroviamo la dicotomia di cui sopra, un gioco di contrasti continuo tra vita e morte, cibo amato e odiato, appetito e fame, cibo sano e junk food, amore e odio. Un odio che Marta esprime anche nelle recensioni false che scrive per il ristorante di Antonio, quando lui la lascia sola.

Un film sul cibo anche se il cibo non è protagonista

I riferimenti al cibo, carburante quotidiano di ogni individuo, in questo film, sono innumerevoli. Il primo incontro tra Marta e Antonio segnato da due supplì mangiati in una tavola calda, la pizza e la birra condivisa con la sorella, la guida gastronomica (Ristoranti d’Italia del Gambero Rosso), come simbolo di buona cucina e poi le recensioni su giornali e web. Ed è anche per tutti questi motivi che con questa storia straordinaria, pur non volendo, la regista Isabel Coixet ci dà una grande lezione: il cibo è un atto di sopravvivenza fisica e morale sia quando lo apprezziamo sia quando lo rifiutiamo.

 

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