Tra formaggi affinati in una ‘madre’ come quella del pane, piatti centenari e dolci barocchi con ripieno a sorpresa, ogni usanza racconta una storia e offre al palato il piacere della scoperta. Nel mensile di aprile del Gambero Rosso siamo andati alla scoperta del Friuli più goloso. Qui un assaggio.
I cjalsons. Foto di Fabrice Gallina
Generosa e rassicurante come una coccola materna. Schietta e identitaria, ma non scontata. Affascinante, questo sì: per scoprirla basta scegliere i Ciceroni giusti, mettendo da parte i dépliant turistici. La cucina friulana è un autentico invito alla mindful eating, con i suoi picchi di sapore e gli accostamenti inusuali, capaci di sedurre anche i palati più diffidenti.
Dalle paste ripiene in cui il dolce incontra il salato ai formaggi fatti affinare con tecniche ancestrali, fino ai piatti rustici nati dall’ingegno popolare, ogni pietanza rispecchia la geografia del territorio e l’indole dei suoi abitanti. Certo, addentrarsi nel vivo della tradizione locale richiede tempo. Il tempo di viaggiare senza tabella di marcia e concedersi soste fuori programma, seguendo un percorso suggestivo in cui la storia s’intreccia col piacere dellāassaggio. Ed ĆØ proprio questo ciò che stiamo per fare. Il nostro raggio d’azione? Un’area circoscritta nel cuore del Friuli. Una piccola linea orizzontale sulla cartina geografica che spezza in due parti (quasi) identiche il nord e il sud della regione, le montagne della Carnia e la bassa friulana. La chiamano “alta pianura” perchĆ© a Nord della Pianura Padana e della ābassaā, con rilievi di un centinaio di metri sul livello del mare. Per esplorarla abbiamo scelto di percorrere un sentiero ad anello che si snoda tra San Daniele e Cividale, passando per grandi cittĆ e piccoli centri. Ma a guidarci, più che la bussola, sarĆ il gusto.
Il Tagliamento. Foto di Ulderica Da Pozzo
A San Daniele si trova una delle biblioteche pubbliche più antiche dāEuropa. Nascosta dalla mole imponente del Duomo, la Guarneriana custodisce con pacata discrezione più di 12mila volumi, dalle edizioni rare della Divina Commedia ai libri stampati cinquecenteschi. Un luogo vivo, dove persino le note a piĆØ di pagina svelano aneddoti, scene di vita quotidiana e usanze gastronomiche di origini remote. A proposito: ĆØ risaputo che la norcineria abbia trovato terreno fertile in queste zone sin dal Medioevo, raggiungendo alti livelli nei secoli a venire; basti pensare che gli ufficiali dellāesercito napoleonico fecero razzia di prosciutti, oltre che dei testi più preziosi della Biblioteca, prima di ripartire per la Francia a fine ā700! Ma San Daniele non ĆØ solo una meta di pellegrinaggio per appassionati di salumi. La sua storia si intreccia con la nascita delle osterie friulane, ritrovi popolari dalle stanze fumose e i tavoli consumati dallāuso, frequentati da gruppi di forestieri sempre pronti a far baldoria. TantāĆØ vero che le ostesse sandanielesi ā di cui i vecchi manoscritti tracciano una descrizione piuttosto colorita ā erano donne ferme e volitive, abituate a intervenire con la forza se i clienti si rifiutavano di pagare dopo un pasto e una bevuta particolarmente abbondanti; alcune di loro vennero addirittura processate per aver fatto ricorso alle mani, stando alle deposizioni emerse dagli archivi giuridici della Guarneriana. Tornando a noi: oltre al prosciutto, quali erano (e sono) i prodotti āda osteriaā più diffusi a San Daniele?
Prosciutto San Daniele. Foto di Alessandro Michelazzi
āNelle osterie cinquecentesche si consumava spesso il quinto quarto del maiale, un poā come a Roma quello dei bovini o dellāagnelloā, spiega Angelo Floramo, storico e docente di materie letterarie allāIstituto Magrini Marchetti di Gemona del Friuli, nonchĆ© consulente scientifico per la sezione antica della Biblioteca Guarneriana. āDopo la macellazione, gli allevatori di suini inserivano un trito di fegato, milza, polmoni, pinoli, uva passa e fichi, nella āreteā dellāanimale; il sacculo cosƬ ottenuto veniva gettato direttamente sulla piastra arroventata e cotto secondo le preferenze dei clienti. Finora questo piatto ĆØ sopravvissuto allo scorrere del tempo, ma sono rimasti in pochi a prepararloā. La trota, invece, ha avuto più fortuna, e oggi vanta un processo di affumicatura da far invidia al prosciutto. āAnticamente, nelle taverne era possibile consumarla perlopiù in padella, tantāĆØ vero che un volume del 1568, la Descrittione della Patria del Frioli, ci parla di ātrutte e temoli di grande bontĆ ā. Poi, però, i friulani hanno scoperto le tecniche di lavorazione per conservare a lungo le sue carni prelibateā. CosƬ sono nati i primi allevamenti ittici nel Tagliamento, il fiume proveniente dalle Alpi Carniche che scorre ai piedi del colle su cui nasce San Daniele. Un habitat ideale per le trote, con le sue acque limpide, fresche e ben ossigenate, in cui gli esemplari più longevi sguazzano felicemente fino a raggiungere lāanno e mezzo dāetĆ , sviluppando una muscolatura invidiabile. Lo sa bene la famiglia Pighin, che dal ā75 trasforma questi pesci in filetti saporiti.
La trota affumicata. Foto di Alessandro Castiglioni
āLa nostra ĆØ una storia a dir poco singolare ā racconta Mauro Pighin, proprietario dellāazienda Friultrota a San Daniele ā Poco più di quarantāanni fa mio padre Giuseppe iniziò ad allevare per hobby dei piccoli esemplari di trota in un laghetto alimentato dalle acque del Tagliamento. Poi, vedendo che i pesci raggiungevano i 10 chili di peso, provò ad affumicarli, facendo test su test per evitare di coprirne il sapore naturale con la salatura e la nota legnosa generata dalla combustione della materia primaā. Nel corso del tempo, il piccolo specchio dāacqua si ĆØ trasformato in un allevamento a bassa densitĆ di pesci, con vasche in terra battuta che simulano il letto del fiume. āLa trota del Tagliamento si riconosce dalle carni particolarmente magre e sode. Per valorizzarle usiamo il sale a secco, che attraversa lentamente i tessuti, e pratichiamo una doppia spinatura a mano con pinzette chirurgiche. La parte più difficile da deliscare? Quella dorsale: bisogna armarsi di pazienza, per rimuovere uno ad uno i 33 ossicini che la compongono. Certo, a volte rimane qualche piccolo frammento di spina allāinterno del prodotto, ma si sa, gli artigiani hanno un margine di errore più ampio!ā. Stesso discorso per lāaffumicatura, delicatissima, capace di esaltare la dolcezza della trota senza alterarne il sapore; merito del fumo naturale ottenuto dai legni vergini e ingentilito dalle note olfattive delle erbe aromatiche locali. Ma quanto tempo dedicano alla lavorazione, i Pighin? āLa sola affumicatura richiede almeno 3- 4 giorni di monitoraggio e viene eseguita sia a caldo, che a freddo. Seguono la rifilatura con le forbici, che rende le fette uniformi, e il confezionamentoā. Tutte minuzie che hanno determinato lāingresso della trota da allevamento nei Pat (Prodotti Agricoli Tradizionali). CosƬ, oggi vanta il titolo di Regina di San Daniele.
Prosciutto, quinto quarto, trota… e poi? āFra i prodotti consumati nelle osterie sandanielesi giĆ in epoca rinascimentale, ce nāĆØ un altro che rivela la forte vocazione allāartigianato degli abitanti del luogo ā spiega Angelo Floramo ā Si tratta del formaggio conservato in barile. Sicuramente ve nāerano diversi tipi, ma i documenti antichi lasciano intendere che uno dei più richiesti fosse il forma di AsƬn o Asino, tipico della Val dāArzino, vicinissima a San Daniele. La sua particolaritĆ ? Il metodo di lavorazione: un vero e proprio gioco di alchimieā. A innescare il processo di fermentazione, una ‘madre’ tipo quella che si usa per fare il pane, detta salmuerie, ācomposta da acqua, panna e sale, che viene tuttāora emulsionata in proporzioni diverse a seconda della ricetta di famigliaā, racconta. āIl fatto sorprendente ĆØ che la salmuerie non viene mai del tutto sostituita: la si rivitalizza aggiungendo di volta in volta gli ingredienti necessari e garantendo loro la debita ossigenazione con frequenti giri di ‘bacchetta’. Alcuni produttori vantano madri che hanno raggiunto diverse centinaia di anniā. Fra questi la famiglia Tosoni, proprietaria dellāomonimo caseificio, con punto vendita annesso, a Spilimbergo, e di due botteghe a Udine e Tolmezzo.
Formaggio AsƬno
Per scoprire come nasce lāAsƬn proseguiamo il nostro itinerario verso Pordenone. In venti minuti di macchina il paesaggio cambia volto: le dolci colline di San Daniele cedono il passo alla pianura e si arriva dritti a Spilimbergo, che deve gran parte della sua notorietĆ alla Scuola Mosaicisti del Friuli. Noi, però, siamo qui per visitare il caseificio dei Tosoni in via Barbeano, dove viene gelosamente custodita una salmuerie con più di duecento anni dāetĆ . āIl nome non deve trarre in inganno: lāAsƬno prevede lāimpiego del solo latte di vacca. Ć stato chiamato cosƬ perchĆ© originario della Pieve dāAsioā, chiarisce subito Domenico Tosoni, uno dei tre figli di Renato, fondatore dellāazienda. āĆ un formaggio dal retrogusto sapido – noi, in dialetto locale, diciamo ‘salmistrĆ ’ – di cui si trova traccia nei volumi seicenteschi, dove viene descritto come unāeccellenza locale destinata allāesportazioneā. Un prodotto ricercato, che deve la sua fama allāinvecchiamento della salmuerie in appositi tini di legno, impregnati degli aromi e del grasso ceduto dal formaggio durante lāimmersione.
Cividale del Friuli. Foto di Fabrice Gallina
Di AsƬno, però, non ce nāĆØ uno solo. āQuello di latte crudo resta a contatto con la ‘madre’ dai 3 ai 6 mesi; la variante tenera composta da latte pastorizzato, invece, solo per 20 giorni. Inoltre, questāultima ĆØ sottoposta a una rottura della cagliata più grossolana, in modo da trattenere lāacqua e ammorbidire la pastaā. Entrambi si sposano divinamente con la polenta e le carni grasse arrostite sulla piastra. āOppure, li si può usare per mantecare il risotto con salsiccia e asparagi o per condire la pasta: hanno il vantaggio di fondere senza filare, quindi formano una crema densa e avvolgenteā. Quale che sia lāabbinamento scelto, questo formaggio saporito si presta bene alla realizzazione di piatti unici piuttosto sostanziosi, tantāĆØ che i Tosoni lāhanno inserito fra gli ingredienti del loro frico artigianale confezionato, pronto da gustare dopo un rapido passaggio in padella. A proposito: avrete senz’altro sentito parlare di questa preparazione mitica della cucina povera friulana? GiĆ che siamo in zona, vale la pena approfondire.
Lasciamo dunque Spilimbergo e proseguiamo verso sud-ovest costeggiando il Tagliamento che, poco alla volta, aumenta di volume inglobando le numerose risorgive presenti nella zona di Codroipo. Dopo aver fatto una breve sosta per ammirare dal vivo queste piccole sorgenti dāacqua fresca, che tracciano una linea di confine naturale tra la bassa e lāalta pianura friulana, percorriamo la Stradalta o Napoleonica (cosƬ chiamata per il largo impiego che ne fecero le truppe francesi durante guerra contro lāAustria) in direzione di Mortegliano, la nostra prossima tappa. Qui ci attende Ivan Uanetto, proprietario insieme al fratello Sandro dellāenoteca con cucina Da Nando. Nessuno, meglio di lui, sa raccontare lāevoluzione storica delle ‘ricette di recupero’.
Il frico. Foto di Alessandro Michelazzi
āSi sa, chi visita il Friuli ha l’obbligo morale di assaggiare il frico ā esordisce Ivan ā Alla sua origine cāĆØ una ricetta squisitamente carnica, trascritta con dovizia di particolari in uno dei primi manuali della letteratura gastronomica italiana: il Libro de Arte Coquinaria, pubblicato a metĆ del Quattrocento dal Maestro Martino da Comoā. In effetti, sembra che l’autore lo cucinasse spesso su esplicita richiesta di Ludovico Scarampi Mezzarota, Patriarca di Aquileia e grande buongustaio (non a caso, i suoi contemporanei gli avevano assegnato il soprannome di ‘cardinal Lucullo’). āPossiamo considerarlo un piatto ‘matriarcale’, perchĆ© veniva preparato dalle donne responsabili della gestione familiare in assenza dei mariti: spesso, quando gli uomini partivano per andare a lavorare all’estero, le massaie friulane facevano il formaggio in casa e lo vendevano in modo da ricavarne qualche soldo. Allora non si buttava via nulla, nemmeno le strisciules (termine dialettale che indica le eccedenze avanzate dalla produzione delle forme). Con questi ritagli poveri, ma gustosi, le donne assemblavano una sorta di fritto misto (da qui, forse, deriva il termine ladino ‘frico’), che veniva cotto in una padella nera di ferro unta di grasso per l’uso ripetutoā.
Il frico secondo lo chef Emanuele Scarello del ristorante Agli Amici dal 1887
Oltre alle strisciules di Montasio, per preparare questo sostanzioso sformato casalingo le cuoche usavano pezzi di formaggio stravecchio (spesso ricavato dalle forme tarlate, non più adatte al commercio), qualche patata e, nei casi più fortunati, della cipolla: āPrima si facevano rosolare le patate schiacciate nel grasso di maiale o nell’olio di colza ā spiega Ivan ā poi venivano aggiunte le varie stagionature di formaggio, in modo che si sciogliessero all’interno del composto. Le donne friulane lasciavano cuocere lentamente il frico fino a quando non si formava sul fondo la tipica crosticina dorata, quindi lo voltavano. Ognuna elaborava una sua personale versione della ricetta, a seconda della disponibilitĆ di formaggi e della proporzione fra gli ingredientiā. ComāĆØ giusto che sia, le dosi e i trucchi del mestiere della famiglia Uanetto rimangono avvolti dal mistero. Unica certezza: il frico servito in questa storica enoteca ĆØ un vero comfort food, che vale il viaggio fino a Mortegliano. Oltre che, ribadiamolo, un emblema della cucina circolare del riuso.
a cura di Lucia Facchini
QUESTO ĆØ NULLA…
Nel mensile di aprile del Gambero Rosso trovate l’itinerario completo che tocca anche Udine, dove ĆØ d’obbligo assaggiare i cjalsons (ravioli ripieni di patate e uvetta su cui viene adagiato un condimento a base di burro, ricotta affumicata, zucchero e cannella) e Cividale del Friuli con le sue pasticcerie dove la gubana ĆØ sempre in bella vista. Non solo, nell’articolo trovate anche 4 indirizzi per una sosta golosa a San Daniele, 7 specialitĆ per 6 vini più una grappa, 5 vini da non perdere. E ancora un focus sul formaggio Montasio, lāinterpretazione del frico (con ricetta annessa) dello chef Emanuele Scarello del ristorante Agli Amici dal 1887 e i 23 Tre Bicchieri del Friuli Venezia Giulia.
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