Poca artigianalità e poco legame con il territorio. Tra carni importate e produzioni industriali di massa, l’icona della tradizione abruzzese, l’arrosticino, rischia di perdere la sua vera identità. Il dibattito circa la sua autenticità, scoppiato sui social dopo Arrostiland – la pasquetta da oltre 20mila presenze targata Abruzzo di Moris a Torre de’ Passeri – ha infatti sollevato interrogativi sul futuro di una specialità che si sta allontanando sempre più dalle sue radici montane e di transumanza. Un motivo per Slow Food Abruzzo per decidere di non eleggerlo come presidio della regione. A patto, come spiega al Gambero Rosso, «che non cambi rotta».
A chiarire la posizione dell’associazione è Rita Salvatore, presidente di Slow Food Abruzzo: «Il presidio Slow Food – racconta – viene attribuito e promosso per prodotti buoni, puliti e giusti che sono presidiati, appunto, sul territorio. L’arrosticino oggi è però una produzione industriale con carni prevalentemente importate, impatti ambientali negativi e scarso sostegno agli allevatori locali». Già, perché il nodo centrale è proprio la filiera. La carne utilizzata per la produzione delle “rustell” nella maggior parte dei casi non proviene da capi abruzzesi, bensì da allevamenti intensivi esteri. «La produzione dietro l’arrosticino dovrebbe essere prevalentemente di carni collegate a greggi che pascolano sulle nostre montagne», sottolinea Salvatore. «Solo così – aggiunge – è possibile pensare a un futuro presidio Slow Food per questo prodotto, seguendo l’esempio virtuoso del Canestrato di Castel del Monte o del Pecorino di Farindola che hanno aiutato a mantenere un’economia sul territorio con ecosistemi radicati».
Ma come fare in concreto a dare un futuro sostenibile a questa filiera? «Serve una visione sul tema che sostenga gli allevatori locali, valorizzi le filiere corte e il benessere animale, e tuteli l’ambiente, le risorse e le comunità del territorio», evidenzia la portavoce. E in questa direzione Slow Food sta già lavorando. «L’unico Presidio che ci consentirebbe di sposare una politica buona per la trasformazione dell’arrosticino in uno ‘slow food’ è quello dei prati stabili e pascoli, luoghi sani in cui le pecore possono trascorrere la loro vita evitando che il bosco continui ad avanzare», sostiene Salvatore. La strada, però, è tutt’altro che semplice. «Tutto l’attuale sistema dovrebbe essere riconvertito perché ci possa essere una produzione di carne che avviene sulle nostre montagne. Servirebbe un disciplinare. Ma è un lavoro da fare insieme alle comunità, ai produttori e agli allevatori», spiega la presidente.
Al momento, sul piano istituzionale, il dibattito è aperto. All’interno della Regione Abruzzo è stata avviata una discussione per il riconoscimento DOP dell’arrosticino sostenuta da Coldiretti, mentre Confagricoltura ha ottenuto l’impegno per l’istituzione dell’Indicazione Geografica Protetta. Ciò che pare assente, invece, è il rilancio di un nuovo tipo di pastorizia sui territori abruzzesi, possibile solo grazie a politiche integrate di sviluppo rurale per la riqualificazione dell’Appennino. L’opportunità è enorme. E il mercato è già predisposto ad accogliere questa transizione e ad aggiungere valore al vero prodotto del territorio. Tuttavia, per Slow Food il percorso verso il presidio non è solo una questione di marketing: «Il nostro intento – conclude Salvatore – è creare una vera green economy per riportare la vita sulle montagne e nelle aree abbandonate e devastate dal cambiamento climatico. Ma serve il lavoro di tutti, pubblico e privato, per trasformare davvero l’arrosticino in un simbolo di eccellenza e sostenibilità abruzzese».
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