Il tempo passa

Lunga vita al cibo. Ecco come il tempo può farlo morire o rivivere (ma con alcuni effetti collaterali)

Shelf life o stagionatura? Protagonista è il tempo, ma processi e risultati sono opposti. Anche nei sapori

  • 22 Luglio, 2025

A guardare fra gli scaffali del supermercato quasi ci si perde. Sembra caos, ma nulla è veramente casuale. Tantomeno l’ordine in cui sono disposti i prodotti. Avete mai fatto caso agli articoli in fondo al ripiano, che in genere scadono dopo gli altri? Ecco, chi scansa la merce in prima fila per attingere da quella porzione di scaffalatura sa bene cosa significhi shelf life: è la cosiddetta “vita di scaffale”, ovvero il lasso temporale entro cui il prodotto resta idoneo alla commercializzazione e al consumo. Una dimensione — la “scadenza” — che ci tocca da vicino: “da consumare entro” o “consumarsi preferibilmente entro” sono diciture su barattoli e confezioni di cibo parte della nostra quotidianità. Il protagonista della shelf life – il tempo – da vincolo stringente per la produzione e la commercializzazione può però diventare – tramite maturazioni e stagionature – anche il segreto di un’esperienza gusto-olfattiva fuori dal comune. L’affinamento del pane, in tal senso, è un indicatore di cosa questo possa significare.

Il senso del tempo per il cibo

Non è un mistero che con il passare dei giorni e in determinate condizioni ambientali la materia prima cambi, si evolva. Variabili come ossigeno, luce, umidità, temperatura e qualsiasi altro genere di sollecitazione meccanica possono incidere su colore, sapore e commestibilità. Comunità e popoli sin dalla notte dei tempi hanno escogitato pratiche d’ogni tipo per allungare la vita dei (preziosi) beni alimentari. Fino alla comparsa degli impianti di refrigerazione, infatti, affumicatura, essiccazione e salagione, al pari dell’uso di aceto, zucchero e spezie hanno rappresentato i più popolari metodi di conservazione. Tecniche oggi perfezionate grazie a ricerca e tecnologia, che ne hanno concepite di nuove. Dalla catena del freddo, passando per i trattamenti termici avanzati, fino all’imballaggio, il progresso continua a migliorare la tenuta della shelf life, indicata normativamente — per le uova, per esempio, 28 giorni dalla data di deposizione — o dal rispettivo produttore (l’Osa).

Le comodità di una shel life più lunga

È quanto si ritrova nella panoramica delineata da Diana De Santis professoressa al Dibaf dell’Università degli Studi della Tuscia: «Dall’innovazione sono scaturiti vantaggi per il consumatore a corto di tempo; ormai si possono acquistare vaschette di verdura già tagliata che non rischia di ossidarsi dato il confezionamento in atmosfera controllata o modificata. Mentre il pasticcere, invece di partire dall’uovo fresco capace di contaminare la fase di preparazione, può ricorrere a “derivati” come l’albume trattato che rendono più semplice il proprio lavoro. Sono avvenute trasformazioni significative che offrono più a lungo stabilità fisica e conservazione. Penso allo yogurt in cui prima il siero si separava facilmente; soprattutto al latte microfiltrato, ripulito della flora microbica (e che dura di più rispetto a quello fresco pastorizzato)».

Il food processing: ecco il prezzo da pagare

Dall’altra parte, sebbene le imprese stiano «studiando estrazioni di origine vegetale che contribuiscano al prolungamento della shelf life», spiega Sabrina Pupillo, tecnologa alimentare, non si può nascondere che la promessa di durabilità del prodotto non abbia un costo: la presenza di additivi, conservanti e antiossidanti, componenti di non comprovata salubrità, insieme a processi che possano intaccare il profilo sensoriale degli ingredienti di partenza. Quello che viene imputato da taluni casari alla pastorizzazione: ovvero che neutralizzando le cariche batteriche identitarie del latte crudo con la termizzazione si arriva a formaggi dal gusto omologato.

“Si azzerano evoluzioni aromatiche e integrità”

Una realtà messa in luce da Francesca Morandin, lievitista figlia d’arte con un’expertise in Scienze e tecnologie alimentari: «L’industria velocizza i processi per abbassare i costi. Opta per una standardizzazione che contempla impianti automatizzati e ricette a base di lievito misto (madre + di birra), con “miglioratori” — pool enzimatici — e mono e digliceridi degli acidi grassi, oltre a ridurre zuccheri e materia grassa. Condizioni tramite cui si cerca di accelerare la lievitazione, e poi rallentare la degradazione degli amidi, la comparsa di muffe e l’ossidazione del prodotto finale. Approccio che ad ogni modo inficia aromi e integrità».

prosciutto di parma

La cultura del tempo come ingrediente

Tutti escamotage che in realtà hanno cominciato ad arruolare anche diversi “artigiani”, peraltro senza grossi risultati. Alcuni infatti inseguono vani stratagemmi per ridurre i tempi di produzione «magari facendo meno rinfreschi al lievito madre o abbreviando l’impastamento». Eppure, nonostante le esigenze della contemporaneità che vuole tutto e subito, esistono ancora artigiani per cui il tempo rappresenta un coefficiente migliorativo: ciò che conferisce una sorta di plusvalore alla materia prima. E poco importa se questa filosofia porti a produrre meno in termini di quantità. Il lavoro sul pane ne è una testimonianza: la cultura del lievito madre negli anni ha regalato una nuova prospettiva in cui si è compreso che la pazienza costituisce l’unica strada per raggiungere la complessità aromatica tipica dell’eccellenza. Con i suoi cru da invecchiamento il mondo del vino insegna. Anche l’affinamento del pane in madie di legno porta in questa direzione un prodotto che era la “bandiera dell’appena sfornato”. La stessa direzione di chi deroga al dogma della “freschezza” e si spinge a frollare il pesce, o perfino a ossidare la mozzarella, a caccia di sensazioni tattili che ridisegnino il nostro alfabeto gastronomico.

Shelf life contro stagionatura

Per capire meglio il senso del tempo nella produzione del cibo di qualità, possiamo prendere i salumi: da sempre, al contrario del pane che doveva essere fresco, la stagionatura poteva assicurare a prosciutti, salsicce e salami una profondità di aromi e sapori davvero incredibile. Oggi, però, troviamo sugli scaffali della gdo (e non solo) salumi industriali trattati con antiossidanti che riescono a resistere anche mesi: questa non è “stagionatura” perché in questo caso l’effetto del tempo è proprio ciò che si vuole evitare, si vuole solo prolungare la shelf life. Quel sapere antico che era (è) l’emblema di come il tempo possa valorizzare la materia prima e incrementare il valore del lavoro artigiano, rischia di perdersi.

L’esempio dei salumi: dal pata negra al culatello

In Spagna, per esempio, Joselito sfida il tempo con i suoi prosciutti crudi “de bellota” in riserve vintage vhe stagionano oltre 8 anni. Mentre in Italia, agli antipodi rispetto alla produzione industriale che si appoggia su nitrati e climatizzazione per invecchiare il maiale, troviamo i culatelli di Antica Corte Pallavicina, affinati estate dopo estate fino a 50 mesi. Ma per tutto questo non basta il tempo. «Tra colore e fragranza, il tempo è fondamentale – spiega Massimo Spigaroli, titolare con la famiglia dell’Antica Corte – Chiunque può mettersi a stagionare per 5, 10 o 20 anni. A fare la differenza davvero sono le muffe nobili delle nostre cantine, gli sbalzi di temperatura fra inverno ed estate, sapere quando aprire o chiudere le finestre dei locali di stagionature. Comunicare di quanti mesi sia il culatello conta molto relativamente, spesso è solo marketing. Ciò che è davvero importante è spiegare tutto il lavoro che c’è dietro, raccontare la storia di chi l’ha prodotto».

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