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L'espresso al bar non va più di moda: servono caffè più morbidi e semplici

In sei punti l'analisi di una crisi, quella dell'espresso al bar. È percepita come bevanda per anziani: servono proposte nuove e differenziate

L’espresso è una delle più grandi invenzioni di sempre nel mondo del caffè. Grazie all’espresso, infatti, il rapporto tra uomo e caffè è diventato agile, ripetibile, continuo durante l’arco della giornata. Prima dell’avvento della “tecnologia dell’espresso”, infatti, la bevanda caffè rispondeva ad un rito “da salotto” ed era preparata per mezzo di sistemi di estrazione più lenti, tipo la cuccumella della tradizione napoletana o la french press. La rivoluzione inizia nel 1884, con la prima macchina espresso a vapore brevettata da Angelo Moriondo, ma per il vero cambiamento si deve arrivare al 1945, quando Angelo Gaggia sfodera la prima macchina a leva. Da quel momento in poi il caffè si prepara in 30 secondi, diventa cremoso e quel rito da salotto si trasforma sempre di più in un rito da bancone. Rito che oggi, però, non affascina più le nuove genereazioni.

Dall’espresso al banco a Starbucks

Stiamo parlando esattamente di 80 anni fa, e sostanzialmente da allora non è cambiato nulla, o quasi, perché negli anni ’80 un signore di nome Howard Schultz si mette al lavoro su un nuovo concetto di caffetteria fatta di divani, tavoli da condividere, bevande lunghe ed emulsionate, e comfort di tutti i tipi: dal wi-fi gratuito alla musica giusta, una service station da cui potersi servire liberamente di ogni condimento fino al sorseggiare il caffè vero e proprio. Nacque così il mito di Starbucks: il cosiddetto “terzo luogo”, riprendendo il concetto del sociologo Ray Oldenburg che descrive un luogo terzo rispetto alla casa e all’ufficio. Da allora, nulla è mutato per l’espresso. Siamo rimasti ingessati in una serie di schemi tipici, che oramai non sembrano più in grado di attrarre le nuove generazioni. Vediamo quali sono i suoi limiti oggi.

1. L’espresso ha un profilo gustativo severo

Certo, non tutti saranno d’accordo, ma sta di fatto che il flavore dell’espresso è decisamente uno dei più complessi e severi che siamo abituati a sorseggiare più volte al giorno. Arriva spesso bollente in tazza, i suoi aromi annoverano spesso note tostate, affumicate e lignee, il suo tenore di amarezza è spesso molto alto, anche l’acidità è ben presente, il suo retrogusto è decisamente prolungato. Ecco, tutto questo racconta una bevuta complessa, da palati maturi, abituati ai sapori forti ed alle nuances brune. Le nuove generazioni, per contro, sono sempre più abituate a bere bevande fresche, leggere, spesso frizzanti, con aromi di frutta fresca e soprattutto dolci, dolcissime. Si pensi alle bevande energetiche, ma anche all’abitudine di bere prosecco in luogo dei vini rossi. Tornando al caffè, basti pensare che il core business di molte catene di caffetterie internazionali sono le bevande latte, super sciroppate e super mescolate con una serie di aromi e addolcitori di varia natura.

2. L’espresso è un’esperienza troppo fugace

Potrebbe sembrare strano, in un mondo che fa del tempo il suo diktat, ma la consumazione al banco dell’espresso è un rituale che attira sempre meno. Le nuove generazioni sembrano, infatti, preferire le consumazioni al tavolo, muniti di computer, tablet e cuffie; oppure in spazi di lavoro condivisi, in cui poter sostare per un tempo maggiore. L’espresso, con la sua consumazione sotto il minuto, sembra invece assomigliare più a una pillola di caffeina, che per tanti anni ha assolto anche il compito di mediatore nei fugaci incontri di lavoro. Oggi, forse anche a causa di una maggiore propensione allo smart working, queste occasioni sembrano ridursi, lasciando il bancone sempre più solo. L’espresso al banco – così come lo conosciamo – è ormai diventato una bevanda per persone anziane. L’espresso, nella sua forma tradizionale, non è stato capace di rinnovarsi, né di adattarsi ai nuovi linguaggi del gusto e della socialità. E così, mentre il mondo cambia, lui resta fermo al bancone, fedele compagno di un pubblico che invecchia – e che, purtroppo, non viene sostituito da nuovi consumatori. Se vogliamo che l’espresso abbia un futuro, dobbiamo avere il coraggio di dirci che quello attuale è finito. Ora bisogna inventarne uno nuovo.

3. Un solo caffè in un bar

L’esperienza in formato espresso al bar ha letteralmente stancato, soprattutto per la sua monotonia in termini di variabili. Tempo fa, definimmo questa patologia della caffetteria italiana con “la regola dell’uno”, che sta a significare che nelle caffetterie di tutte le città d’Italia è possibile bere solo una tipologia di caffè (espresso), di un solo brand (che spesso finisce per essere l’unica indicazione nota del cafè che beviamo), a un solo prezzo (uguale più o meno dappertutto). Questo cliché è decisamente vetusto e inaccettabile, in una società in cui recandosi al supermercato, persino allo scaffale del sale da cucina (altro prodotto rinomatamente monotono) è possibile oramai scegliere tra tantissime tipologie di prodotto, distinte per provenienza, aroma e prezzo; per non parlare, poi, dello scaffale dei chips in busta che hanno raggiunto una segmentazione da prodotto gourmet. I consumatori moderni vanno alla ricerca di novità, continuamente; così è possibile osservare prodotti storici subire una costante rivisitazione, per risultare più attraenti e meno superati.

4. Il barista non sa cosa propone

Uno dei limiti più gravi dell’espresso servito oggi nei bar italiani è che chi lo prepara – e spesso anche chi lo gestisce – non ha la minima idea di cosa stia offrendo al cliente. Nella maggior parte dei casi, la scelta del caffè è guidata esclusivamente dal prezzo che propone la torrefazione. Non si parla di origine, varietà botanica, profilo di flavore o qualità della materia prima. Non esistono criteri di selezione basati sul gusto, sul valore etico della filiera o sulla coerenza con il tipo di clientela. Il caffè arriva al bar, si apre il pacchetto, si riempie la tramoggia e si serve: fine del racconto.
Il risultato è che l’espresso, da Nord a Sud, ha spesso lo stesso flavore, figlio di miscele simili tra loro, create per standardizzare e non per distinguere. È come se nei ristoranti di tutta Italia ci fosse un solo tipo di vino rosso, indistinto e onnipresente, senza alcuna carta dei vini, senza indicazioni su cantina, annata o vitigno. Sembra assurdo, ma nel mondo del caffè è la norma. Fintanto che il barista e il gestore non torneranno a essere curiosi, competenti e selettivi, l’espresso italiano non potrà evolvere.

5. Torrefazioni mummificate

Se l’espresso italiano è fermo, una parte importante della responsabilità è da attribuire anche alle torrefazioni. Per decenni hanno contribuito a cristallizzare un modello commerciale basato sulla ripetitività del flavore: miscele simili tra loro, spesso tostate allo stesso modo, guidate da una logica di standardizzazione estrema. Ma oggi questo non basta più. I consumatori cercano esperienze autentiche, vogliono scegliere, assaggiare, confrontare. Eppure le proposte delle torrefazioni continuano ad assomigliarsi tutte, come se si temesse che differenziare il prodotto sia un rischio anziché un valore. Le torrefazioni devono compiere un cambio di passo radicale. Devono iniziare a costruire una gamma ampia e trasparente di caffè, con identità sensoriali ben definite, provenienze dichiarate e posizionamenti qualitativi differenziati per permettere al barista di fare scelte reali e avere in mano strumenti concreti per raccontarle al cliente. Sarebbe importante supportare attivamente i gestori dei locali nell’evoluzione del format: affiancarli nella formazione, proporre metodi diversi di estrazione, collaborare nella progettazione di nuove esperienze di consumo.

6. Una proposta per la Gen Z

Per superare la crisi dell’espresso e rilanciare davvero il bar italiano, non basta una riflessione culturale: serve una proposta concreta, aggiornata, allettante. Serve, prima di tutto, un nuovo menu di caffetteria. Il format attuale – espresso veloce, cappuccino e poco più – non è più sufficiente. Le nuove generazioni, in particolare la Gen Z, stanno cambiando radicalmente il modo in cui consumano e socializzano. Sono abituate a bevande più voluminose, con un flavore dolce (o morbido) e che possano essere gustate con calma, magari lavorando al pc o chiacchierando con amici. Sono gli stessi giovani che hanno reso popolari i cocktail analcolici, le bibite aromatizzate, le acque funzionali. Non cercano più lo “shottino” alcolico, così come non cercano più l’espresso amaro con note bruciate e spesso difettato bevuto perdipiù in piedi. Ecco perché è fondamentale che il bar introduca una nuova linea di bevande latte, aromatizzate, fredde o montate, studiate con attenzione nei bilanciamenti, negli zuccheri, nella presentazione. Una caffetteria contemporanea deve avere una sezione di proposte pensate per il divertimento, per il relax e per esperienze sensoriali accessibili anche a chi non ha un palato “allenato”. Non si tratta di sostituire l’espresso, ma affiancarlo, espandendo l’universo del caffè e dando spazio a nuovi rituali di consumo. Perché se il pubblico cambia, anche l’offerta deve cambiare – altrimenti il bar resterà vuoto.

Il cambiamento parte dal basso

Il futuro del caffè italiano è nelle nostre mani. Come curiosi, competenti o appassionati – noi “semplici” clienti: ma chi altri conta di più per un bar? – possiamo essere i primi promotori di un cambiamento reale. Proviamo a chiedere di più ai bar che frequentiamo, scegliamo e sosteniamo torrefazioni che puntano sulla qualità, la trasparenza e la differenziazione, premiamo quei locali che sperimentano, che formano i loro baristi, che offrono esperienze nuove e coinvolgenti. Non possiamo più accontentarci di un espresso anonimo, di un menù senza personalità, di un servizio che non racconta nulla.

Potremmo essere ambasciatori di una nuova cultura del caffè, capace di parlare ai giovani, di valorizzare la filiera, di innovare senza dimenticare le radici. Il cambiamento comincia da chi sa vedere oltre l’abitudine. E se non lo facciamo noi, chi dovrebbe farlo?

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