In fondo al mar

Non solo Ilva. A Taranto sta scomparendo lentamente anche la pesca delle cozze

Tra temperature troppo alte, sequestri e bonifiche eccessivamente lunghe, i molluschi pugliesi presidio Slow Food rischiano di scomparire. Un danno per la città, i miticoltori e per le nostre tavole

  • 09 Luglio, 2025

A Taranto l’ex Ilva plasma da decenni l’economia, l’ambiente e la vita quotidiana dei cittadini. Eppure, mentre l’industria siderurgica arranca – proprio in questi giorni si gioca una partita cruciale per il futuro dell’impianto – c’è un’ altra protagonista che paga il prezzo delle scelte industriali del passato e del presente. È la cozza nera di Taranto, gioiello del Mar Piccolo e presidio Slow Food. Un fiore all’occhiello della mitilicoltura locale che rischia di scomparire da mercati, pescherie e tavole perché strangolato da un mix letale di inquinamento e riscaldamento globale.

Temperature troppo alte 

Non si tratta solo un prodotto gastronomico d’eccellenza, ma un simbolo di una tradizione millenaria che affonda le radici in un ecosistema unico. Da secoli, la bassa salinità e le particolari condizioni ambientali della laguna del Mar Piccolo favoriscono la crescita di questo mollusco, dal 2022 Presidio Slow Food. Un riconoscimento che non è solo un sigillo di qualità, ma un impegno concreto di oltre 40 allevatori a rispettare un disciplinare tecnico rigoroso per garantire tracciabilità, sostenibilità ambientale e salvaguardia dell’ecosistema marino. Oggi la pesca della cozza tarantina è però in ginocchio. L’eccezionale ondata di caldo nell’estate 2024 ha fatto schizzare le temperature marine fino a 32 gradi, ben oltre la soglia di sopportazione dei mitili.

Il risultato è stato drammatico: circa il 70% delle cozze adulte e del novellame sono andate perdute proprio a causa della persistenza di queste alte temperature, come confermato da uno studio del CNR-Irsa. Una crisi che si starebbe ulteriormente aggravando quest’anno, con previsioni per l’estate 2025 che indicano temperature marine recordIl danno economico è enorme. Solo lo scorso anno, la perdita di 9 mila tonnellate di cozze si è tradotto in circa 8 milioni di euro persi, con circa mille posti di lavoro a rischio e  un impatto sociale che coinvolge circa 400 famiglie. Numeri che hanno spinto le associazioni di categoria e i sindacati a chiedere a gran voce un riconoscimento dello stato di calamità naturale, riconosciuto solo lo scorso aprile dal Ministero dell’Agricoltura. per aprire accedere al fondo di solidarietà nazionale per le imprese colpite 

La concentrazione di metalli e diossine

A questa emergenza climatica si aggiunge poi il problema dell’inquinamento, in particolare quello storico prodotto dall’ex Ilva, ma anche dalla raffineria Eni, dall’arsenale militare e dalla cantieristica navale. I livelli di metalli pesanti, idrocarburi e altre sostanze tossiche nelle acque e nei sedimenti hanno reso infatti impossibile la coltivazione e la commercializzazione delle cozze provenienti dal primo seno del Mar Piccolo, tradizionale cuore della mitilicoltura. Per questo motivo dal 2012 una specifica ordinanza regionale vieta la coltivazione e la commercializzazione di cozze di dimensioni superiori ai 3 centimetri provenienti da questa zona. 

La situazione si è ulteriormente aggravata nel 2021, quando questa stessa area è stata sequestrata per l’elevata contaminazione da diossine. Dopo quattro anni, però, il dissequestro è ancora lontano. Nonostante l’autorizzazione a rimuovere gli impianti abusivi presenti nell’area, la magistratura ha infatti confermato che le condizioni ambientali non sono migliorate, prolungando così il blocco di una delle zone più importanti per la coltivazione dell’oro nero tarantino. Secondo i mitilicoltori, serviranno almeno dieci anni per completare le bonifiche, smantellare gli impianti abusivi e ottenere le concessioni necessarie, condannando così il settore a una crisi prolungata.

La produzione si è così spostata nel secondo seno del Mar Piccolo, ormai anch’esso sovraffollato e compromesso, rendendo urgente il trasferimento dell’allevamento delle cozze tarantine nel Mar Grande per favorirne la maturazione e ridurre la contaminazione da inquinanti. Al momento si tratta solo di un progetto, ma l’ombra di un rigassificatore nella rada del Mar Grande (frutto di un memorandum per la decarbonizzazione dell’acciaieria tra Adi, Ilva e Dri d’Italia) potrebbe complicare ulteriormente la situazione e il rilancio della pesca delle cozze tarantine. Senza un’inversione ambientale, il rischio di perdere questa eccellenza e con essa una parte fondamentale dell’identità e dell’economia di Taranto rimane elevato.

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