Nostalgia (canaglia) della cucina della nonna, un mito che non muore mai. Un ricordo fatto di sapori e profumi impressi nella memoria, difficili da dimenticare, e in cui capita di rifugiarsi. Soprattutto in un momento in cui a casa si cucina poco o si ha sempre meno tempo per farlo. Ne sa qualcosa Chiara Nicolanti che su Gambero Rosso TV conduce “Con le mani in pasta”, una serie dedicata appunto alla cucina delle nonne, ma ai tempi di oggi!
Quante volte assaggiato un piatto non avete detto o sentito dire “eh come lo faceva mia nonna però… nessuno”. Ecco che crescendo si rimpiangono quelle preparazioni tanto intense quanto generose, centrate sul gusto. Poco importa se a distanza di tempo ci tornano in mente più buone di quanto in realtà fossero. D’altronde, quando si è più piccoli tutto è più semplice, forse anche più buono. Nell’immaginario collettivo resta ancora la cucina comfort per eccellenza, dal fascino vintage. Ma se tutto questo fosse solo frutto di una percezione un po’ distorta o ideologica, di parte, perché l’affetto che ci lega a chi ci fa da mangiare è maggiore di qualsiasi pecca culinaria? Oggi, poi, sembra che la “nonna” — estrapolata da qualsiasi dimensione temporale — sia l’unica autentica depositaria della cultura gastronomica del nostro Paese, quella che continuiamo a definire Tradizione. Anche molti chef, del resto, si dicono ispirati dalla cucina della nonna… È mai possibile? Per capire se sia veramente così o si tratti di una leggenda popolare, ci siamo affidati a una ricostruzione storica che passa dai ricettari novecenteschi e dalla valutazione di alcuni studiosi.
Foto di scena da Gambero Rosso TV durante le riprese della serie Con le mani in pasta, dedicata alla cucina delle nonne e condotta da Chiara Nicolanti
La società sta cambiando a ritmi impressionanti. Le trasformazioni in atto coinvolgono ogni aspetto della vita quotidiana, incluso il cibo. Se negli Stati Uniti alcune case non contemplano la presenza di fornelli, visto che o si mangia fuori o si ricorre al già pronto, anche in Italia la direzione non pare tanto diversa: il pasto si fa rapido assemblaggio e consumo. Come dimostra nelle grandi città l’assortimento di molti supermercati, con uova sode sgusciate o frutta già mondata e tagliata per non parlare dei piatti freschi pronti. E con il nuovo che avanza, si perdono i punti di riferimento, quelle certezze che si pensava di avere. Se si considerano pure la cucina d’autore, le sue sperimentazioni e continue rivisitazioni, la nonna diventa per la maggioranza l’ultimo baluardo a difesa del repertorio tradizionale, la sola custode dei gusti che conosciamo e a cui ci eravamo abituati. Un rassicurante tuffo nel passato, la magra consolazione per chi ha paura o si “oppone” alla transizione e al progresso.
L’immagine costruita intorno al “personaggio”, però, sarebbe per diversi storici una pura invenzione, in parte frutto del fatto che guardiamo il passato con gli occhi del presente. Alberto Grandi, coautore del libro La cucina italiana non esiste, lo sostiene senza mezzi termini: «Figura mitica, che serve a ricostruire una memoria collettiva inesistente; o meglio, esiste oggi, ma non nella realtà, perché il passato è diverso da come ce lo raccontiamo. Si tratta di una costruzione artificiosa volta a dare profondità storica alla nostra cucina la cui qualità oggi nessuno mette in discussione, ma che è stata “inventata” recentemente». Parallelamente, ne riconosce la componente emotiva, sottolineando il valore della memoria, a prescindere dalla bontà di una preparazione: «Non metto in dubbio che molti italiani rimpiangano i piatti della nonna. Se ciò avviene però è perché fanno parte del proprio vissuto. Indipendentemente dai sapori, dal fatto che cucinasse bene o male, la nonna è un “ricordo” che rassicura. Il passato quindi è sempre qualcosa che ci lega, commuove e che, rievocando con contorni sfocati, mitizziamo. Si pensi alla scena del cartone Ratatouille in cui il critico Anton Ego si scioglie dopo aver assaggiato l’omonima pietanza ricordandosi di quella che gli faceva la madre da piccolo». Dello stesso filone critico il professor Alberto Capatti: «La tradizione della nonna è leggenda. Non si riscontra nei vecchi ricettari, da Artusi fino a quello di Ada Boni. Si è inventata allora una figura di cui c’era bisogno perché la cucina italiana non era quella (gloriosa) francese dei grandi chef e ristoratori. Costruire la tradizione significa costruirsi un passato che è un passato domestico importante che gioca nei principi un ruolo di continuità con i cibi stessi che offre». Si trova d’accordo con questa tesi di fondo la storica Mila Fumini, specializzata in ricerca e digitalizzazione d’archivio, che aggiunge: «Un’idea romantica, che ci siamo messi in testa da un certo periodo in poi. Anche perché, salvo famiglie d’estrazione alto borghese, i nuclei degli anni ’50, ’60 e primi ’70 erano ampi e matrilineari. Nelle abitazioni convivevano varie generazioni ed era normale che le donne più anziane insegnassero le mansioni — la trasmissione dei saperi — a quelle della generazione successiva. Per cui madre e figlia potevano cucinare insieme. Non è in sé la nonna che ha “passato” la Tradizione».
A suscitare le perplessità degli studiosi soprattutto la mancanza di una dimensione storica. Dalla loro prospettiva la mitologia della nonna rappresenta infatti una narrazione ex post, destituita di una precisa collocazione cronologica. Lo spiega bene Grandi: «A sentire gli altri, pare che le nonne cucinassero tutte bene, ma non sappiamo mai di quali stiamo parlando. La mia, per esempio, ha vissuto la Prima guerra mondiale e ha patito la fame. Era più vecchia di quella di Massimo Bottura, da cui dice di aver imparato a cucinare. Una pubblicità della Nutella (1978) afferma “ieri tua madre ti dava Nutella, e oggi tu la dai al tuo bambino”, ma mia mamma è nata nel ’34, e siccome l’azienda è del ’64, in realtà la nonna non gliela dava. Alla fine il richiamo alle nonne resta marketing». Peraltro, in assenza di contesto, chiunque fra i membri della famiglia di genere femminile — bisnonna, madre, figlia, nipote — sarebbe nel racconto mitico riconducibile al generico “nonna”. Una rielaborazione collettiva obsoleta, eppure ancora corrente, che non terrebbe conto, se non marginalmente (il ricettario della nonna), della complessità della quotidianità domestica. In tal senso Fumini, artefice del progetto RAGU-Reti e archivi del gusto, aggiunge: «Bisogna preservare la memoria. Più che della nonna è la cucina delle donne, che da prima del Medioevo si occupano dell’economia domestica e della salute dei propri cari anche attraverso il cibo. Dalle fonti raccolte, tra cui manoscritti risalenti al ‘400, i ricettari d’uso comune tracciano preparazioni che conciliano utile e dilettevole affinché il cibo non fosse solo nutrimento ma anche cura medica. Già dai quaderni del Trecento compaiono trascrizioni di prodotti erboristici e di bellezza. Per secoli emerge un lavoro di uso e recupero di quello che c’è. Si riporta una cucina di sussistenza basata su acquisti di prossimità e ingredienti semplici, non opulenta e complessa come quella borghese dei ricettari stampati stile Artusi, uomo che per giunta faceva replicare alla propria servitù le ricette donategli dalle casalinghe italiane. Certamente, quella trascritta non era una Tradizione culinaria regolamentata (ciò che invece “proteggiamo” attraverso la retorica della nonna)».
Spiegare fino in fondo perché abbia tanto attecchito nella cultura popolare l’idea di una signora anziana che con il suo grembiule si districa tra pentole e fornelli può sembrare facile. Sicuramente c’è chi farebbe leva sulla forza trainante dei sentimenti: “come dimenticare quegli attimi golosi legati all’infanzia?”; mentre qualcun altro direbbe “è chiaro, perché simboleggia la padronanza di pratiche ancestrali che si stanno disperdendo!”. Ma parlare di magia rétro, malinconia per tempi o persone che non torneranno più, non basta nemmeno per trovare una risposta al successo di nonne influencer che accumulano migliaia di follower al giorno. Nell’ambito però di un’analisi più profonda dell’evoluzione dei consumi alimentari Alberto Grandi ha provato a darsi una spiegazione: «Se prendiamo il 1950 come spartiacque, il periodo della grande trasformazione, la rottura con un passato fatto di privazione e fame, le nonne del secondo Dopoguerra quantomeno hanno avuto una funzione: accompagnarci fuori dalla povertà, viziarci nell’abbondanza riempiendoci la pancia. Forse per questo hanno avuto e continuano ad avere un valore simbolico e ideologico nella cucina italiana. Con la triade del boom economico — frigo, supermercato e automobile — infatti arriva l’opulenza e con essa stabilmente carne, grassi, pasta, passata di pomodoro, prodotti confezionati (ritenuti più sicuri rispetto a quelli del contadino) e dagli anni ’70 anche dolci; mentre esce dalla dieta la polenta, che era stata alla base dell’alimentazione contadina. Prima si arrabattavano, visto che negli anni Quaranta gli ingredienti erano pochi, in particolare verdure e cereali, a comporre un’alimentazione povera, monotona e insipida, al di là dei 3-4 piatti della festa come i tortellini a Bologna e gli spaghetti con le vongole a Napoli». Periodo in cui la grande distribuzione impone una significativa trasformazione: dalla spesa di mercato a quella di supermercato. Ne consegue la scomparsa progressiva di molte botteghe di prossimità. In tutto ciò l’industrializzazione coincide con l’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro. Ed è qui che lo storico individua nel ritratto contemporaneo della nonna quale custode della migliore tradizione un ulteriore elemento d’infondatezza: «Se in precedenza la donna ha tempo per cucinare, stando a casa, ma pochi soldi per comprare gli ingredienti, quando inizia a lavorare, pur guadagnando, non dispone più delle ore per dedicarsi alla cucina. Chi sono le “nonne” cui ci si riferisce oggi? Le donne che all’epoca si impratichivano con il frigorifero, funzionale per quei prodotti confezionati che non rientrano nella narrazione del mito. Ancora una volta, di quali nonne si sta parlando?».
In prospettiva, la figura della nonna è destinata a svanire. Almeno per come l’abbiamo sempre intesa e idealizzata. Lo lasciano intravedere i cambiamenti in corso che investono le strutture su cui si era eretta la società: la ricezione di nuovi modelli culturali e sistemi di valori che ridisegnano la divisione di genere del lavoro domestico e traducono la spesa in atto politico o funzionale a un pasto sempre più rapido e cheap. Il futuro delineato dagli esperti è questo e Grandi non sembra avere dubbi: «La “nonna” rimarrà nella mitologia, anche se non è mai esistita. E comunque non sarà replicabile, date le differenti condizioni economiche e ambientali; i salari reali stanno calando e se arriva la crisi il modello alimentare sarà ancora più industriale con un proliferare di surgelati pronti. Magari il km 0 risulterà meno interessante del discount. E visto che ormai si è più sensibili rispetto a sostenibilità e benessere animale, le “nonne” di domani si muoveranno fra vegetarianismo e povertà. Ora poi i ruoli di genere in casa stanno diventando. Chi ci dice che in futuro non siano i nonni (o anche i nipoti n.d.r.) a preparare da mangiare».
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