L'allarme

"Nelle Langhe a rischio il lavoro vigna: nessuno vuole farlo. Dipendiamo dalle cooperative". La denuncia di Giacomo Vaira

Con il cambio generazionale è cambiato tutto: l'unica manodopera assicurata è quella straniera con un turn over continuo che rende inutile la formazione. E non mancano i casi di caporalato

  • 31 Luglio, 2025

Due giovani vignaioli in un paese delle Langhe, Vergne, recentemente diviso tra i comuni di Barolo, La Morra e Narzole. Da qui parte il progetto dell’azienda agricola Vaira Aurelj, piccola realtà vitivinicola nata dalla volontà di Francesco e Giacomo Vaira, fratelli uniti dalla passione per il lavoro in vigna e dal desiderio di proseguire la passione del padre. Il loro progetto si base sui vigneti di nebbiolo, barbera e dolcetto che coltivano da ormai 10 anni. Ma qualche giorno fa, sul profilo Instagram dell’azienda, Giacomo pubblica un post per denunciare il rischio che il lavoro agricolo diventi sempre meno rilevante e che i produttori diventino sempre più dipendenti dai servizi delle cooperative. «Il senso del post è un ringraziamento a chi si occupa di agricoltura: coloro che sono coinvolti nella fase agricola e restano un po’ nell’ombra», risponde Giacomo Vaira, d’accordo con Francesco.

Lei ha scritto: «Spesso ci troviamo a parlare del vino, di come lo si fa, facciamo a gara a chi è più virtuoso nel farlo. Tuttavia la questione agricola raramente assume la stessa importanza». Abbiamo dimenticato la parte agricola?

Confermo. Siamo più interessati alla tecnica di vinificazione, ai lieviti, se sono indigeni o no, al grado di solforosa. Raramente si parla della campagna. È una cosa importante. Alle persone voglio dire: parliamo troppo del processo di trasformazione che è pari a un mese di lavoro, viceversa l’attività in campagna, fatta di mille sfumature, viene snobbata: sembra sia meno figa del lavoro in cantina. Ma il lavoro in campagna occupa il 70 per cento del nostro tempo.

Incide altrettanto sul vino?

Quando hai un’uva eccellente la differenza è fare un vino buono o eccellente. Se l’uva non è eccellente, anche se sei un grande enologo, non potrai mai fare un vino eccellente. Se i problemi sono alla base è impossibile recuperare: non si può riprodurre l’equilibrio che la natura ci ha dato.

Su Instagram ha scritto che «negli ultimi 10 anni in Langa si sta assistendo a un calo drastico della qualità del lavoro in vigna» e che, così facendo, «si va nella direzione già prevista da Carlo Petrini». Che cosa intende?

Carlo Petrini ha ricordato che, vista la stagionalità del lavoro in campagna, spesso limitato solo ad alcuni mesi, è difficile avere un organico fisso. Succede anche alle aziende strutturate: c’è un turn over sempre maggiore di persone che devi formare e che poi non tornano più.

Il problema riguarda anche le cooperative?

Certo. Molti produttori anziani ricordano che in passato chiedevano dieci persone e quelle persone arrivavano. Ora le cooperative ti chiedono: dammi un programma, quando ti servono? Ma i cambiamenti derivano dalla trasformazione della struttura sociale…

In che senso?

C’è più lavoro a macchina. Il lavoro manuale costa sempre di più: è la spesa più grossa che alla lunga affonda una azienda. E poi se devi spendere tanto in manodopera ti aspetti anche della manodopera formata.

E invece?

La formazione, che di solito faceva la cooperativa, dobbiamo farla noi. I ragazzi vanno in vigna e non sanno muoversi. E cambiando sempre il personale è difficile avere questa formazione.

Come funzionava in passato? Le Langhe rischiano di disperdere un patrimonio di cultura contadina?

In Langa fino a 30 anni fa il lavoro di campagna veniva fatto dagli stessi piemontesi per portare a casa qualche soldo. Prima ogni famiglia lavorava 5-6 ettari di vigna, ora ne hanno 70-80: la famiglia non può svolgere il lavoro in modo autonomo. Da quando c’è stato il cambio generazionale i nostri nonni non sono più andati in vigna e i nostri genitori hanno perso una parte di manodopera. Tramite le cooperative è arrivata anche in Langa una manodopera non italiana: ma è più semplice dialogare con chi sa la tua lingua. Tuttavia alcune di queste persone si fermano e, nel corso degli anni, quelle con le migliori capacità lavorative sono state assunte dalle aziende.

Quindi ci sono anche degli elementi positivi…

Per noi questa presenza è stata molto positiva, altrimenti non potremmo fare altri lavori richiesti dall’azienda. Però affrontiamo un calo demografico importante e, in più, i più giovani vanno a studiare e a lavorare nelle città. Noi cerchiamo di fare il nostro piccolo. Il lavoro di campagna non è poi così brutto: dobbiamo dirlo. Io sono molto contento di questo lavoro.

Quello delle cooperative è un tema caldo. Nel post denuncia che «non si è fatto abbastanza per tutelare i lavoratori delle cooperative, per investire in una struttura di assistenza e formazione e così oggi ci troviamo con un turn-over altissimo e gente sempre meno preparata e tutelata, nonostante il prezzo che gli agricoltori pagano per questi servizi non faccia altro che aumentare»…

Abbiamo tantissime cooperative ben organizzate che vanno a braccetto con le aziende più grosse. Ma ci sono anche delle ombre, situazioni che vanno controllate. È difficile aspettarsi che il lavoro sia gestito dalla cooperativa e che questa faccia anche la formazione, ma io agricoltore come faccio a investire in formazione? Il lavoro stagionale dura sei mesi e dopo vanno via: non hanno interesse a stare qua tutto l’anno. Servono anche scuole di italiano: è difficile confrontarsi con chi non sa la lingua.

In pratica, come funziona?

Funziona che ti viene mandata la squadra di persone. Possono essere 5 o 10 o 20. In un gruppo di cinque, c’è il caposquadra che mastica l’italiano, è uno formato, due collaboratori che sono da un paio d’anni in Italia nel settore e due persone nuove che non hanno mai affrontato il lavoro e non sanno la lingua. Così è difficile spiegare che lavoro vuoi fare tu. E poi lo Stato non aiuta…

Cioè?

Le norme non permettono al proprietario dell’azienda di lavorare con la cooperativa. L’affidamento viene visto come un appalto: tu che sei proprietario non puoi andare a lavorare con loro. La vigna viene vista come un cantiere: ci sono gli operai che mettono i mattoni ma tu che sei il proprietario non puoi farlo. Dobbiamo dire di no pure agli appassionati di vino e agli amici che ci vogliono aiutare nella vendemmia. Per le leggi è considerato lavoro in nero e non possiamo farlo. È un peccato: la vendemmia è il momento più carino da vivere. Abbiamo solo la vendemmia turistica: chi partecipa, paga per vendemmiare. Ma se qualcuno vuole venire a trascorrere una settimana per vendemmiare con noi non può farlo.

E agli ostacoli burocratici si aggiunge la trasformazione del lavoro in azienda…

Le aziende hanno da gestire accoglienza e vendita. Bisogna strutturarsi perché non puoi fare tutto. Lo stesso problema vale per camerieri e cuochi: c’è disoccupazione ma molti non trovano personale. Però oggi chi viene a lavorare qua guadagna di più. Per quello che vedo questi lavori dovrebbero essere più ambiti: oggi un trattorista viene pagato come un amministratore. Sono lavori ben pagati.

Gli immigrati che lavorano nelle campagne da dove arrivano?

In questi 15 anni è cambiato il flusso: all’inizio c’erano tantissimi polacchi, dopo sono arrivati macedoni e rumeni per un periodo più lungo, oggi arrivano molti dal Bangladesh o dall’Africa. Non sono aumentati i lavoratori, ma sono cambiati i flussi migratori.

Per affrontare questi problemi cosa fanno insieme le aziende?

Tante aziende danno il buon esempio, ma non riescono a fronteggiare l’eccessivo turn over: non possono investire se gli addetti non restano. Nella nostra zona, inoltre, c’è ancora troppo individualismo: l’azienda tira dalla sua parte senza unirsi ad altre.

Esistono delle buone pratiche nel territorio?

Qualche azienda grande fa formazione interna e offre gli alloggi ai lavoratori interni. Rispetto agli appalti con la cooperativa, offre ai lavoratori la scuola di italiano con corsi serali gratuiti, oltre alla formazione del lavoro da svolgere. È un format che funziona: perché non estenderlo ad altre aziende? Sarebbe una riduzione delle spese. È un progetto al quale alcuni possono essere interessati ad aderire. Il vino prodotto nelle Langhe ha un grande valore, quindi poche aziende non hanno soldi per investire in quel settore. È giusto dare indietro qualcosa a livello di comunità: sarebbe un investimento di cui tutti potremmo giovare.

L’arrivo di produttori ‘esterni’ in Langa contribuisce alla perdita di identità o è una opportunità di crescita?

Finora li conti sulle dita di una mano: non mi pare un fenomeno così rilevante. Non li vediamo come un problema. Semmai il problema è la crescita incontrollata dei prezzi dei terreni: non possiamo più comprare la terra, salvo scegliere di indebitarsi a vita. Non abbiamo nulla contro chi arriva, ma questo è un indice di qualcosa che sta degenerando a livello di prezzi. In ogni caso chi viene nel territorio è un valore aggiunto: arrivano con nuove idee e il territorio si arricchisce.

Tornando alle cooperative, lei denuncia che i produttori sono «totalmente dipendenti da una forma di caporalato diffusa e tacitamente accettata». Come funziona questo meccanismo? C’è qualche rimedio?

Il rischio c’è sempre, se vogliamo essere onesti. In generale le condizioni sono buone, ci sono molti controlli, i lavoratori sono ben pagati. Tuttavia i casi di caporalato sono accaduti: alcuni pensano di vivere nell’epoca dello schiavismo, ma i furbetti non devono esserci punto. Dobbiamo ricordare che nel Bangladesh le condizioni di lavoro sono molto diverse: là non ci sono sicurezza né tutele. Chi arriva è abituato a quelle condizioni. Quindi tocca a noi dare una formazione anche sui diritti, metterli nella condizione di non accettare alcune condizioni. Noi oggi non abbiamo la forza lavoro di cui ha bisogno questa zona: senza quei lavoratori e senza le cooperative avremmo troppa vigna da lavorare da soli. Siamo dipendenti da loro.

C’è una sensibilità diffusa tra i produttori sui problemi che lei sta sollevando? Il consorzio sta facendo qualcosa? Potrebbe aiutare i produttori in qualche modo?

Tra i produttori il tema è sentito, ma la soluzione è complicata. Ci sediamo al tavolo e poi diciamo: che cosa facciamo? Non ci sono associazioni di produttori che si occupano della cosa. Non c’è mobilitazione. Ad oggi il consorzio non si è ancora mosso in questa direzione. Certo, qualcosa si può fare: per esempio, fornire un supporto alle cooperative per i corsi serali. L’ideale sarebbe associare le cooperative al consorzio per avere garanzie sulla dignità del lavoro: così i produttori avrebbero la serenità di lavorare con cooperative dove le persone sono trattate bene e sanno cosa fare. A Saluzzo, territorio noto per essere il distretto della frutta, sono nate iniziative minime rivolte all’accoglienza dei lavoratori immigrati e all’insegnamento della lingua italiana. Oggi si parla di “Modello Saluzzo”: sarebbe bello se anche le Langhe potessero diventare un modello.

© Gambero Rosso SPA – Tutti i diritti riservati.

Made with love by Programmatic Advertising Ltd