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La discussione

Mantecatura, franchising, dipendenti: il dibattito sulla legge per il gelato artigianale è aperto

Il Gambero Rosso, con il professor Michele Antonio Fino, ha aperto il dibattito sulla proposta di introdurre in Italia una normativa dedicata al gelato artigianale

Le riflessioni sull’opportunità di arrivare a una definizione legale di gelato artigianale (da cui deriva ovviamente la definizione di gelatiere, artigianale, come non sembra aver capito qualche professionista del settore, che viceversa sui social irride la definizione del prodotto mentre chiede la definizione del produttore) ha suscitato qualche reazione “scocciata”, ma molto interessata… E per fortuna anche qualche ottimo contributo alla discussione e alla sintesi che dovrebbe derivarne. Uno fra questi è così analitico che merita di costruirci su una seconda puntata del tema, traendo spunto dai suggerimenti di un professionista giovane quanto affermato, il gelatiere fiorentino Pierpaolo Portogallo. L’esigenza di avere regole ha radici negli anni e tentativi sono stati fatti in questo senso: è arrivato il momento di concretizzare.

Cono con il gelato al pistacchio di Cappadonia

Progetto di legge: botta e risposta

Di seguito, alle singole annotazioni di Pierpaolo aggiungerò le mie “controdeduzioni” anche se giova specificare che il rapporto di grande stima che nutro per lui fa sì che le mie non debbano in alcun modo essere lette come osservazioni polemiche.

Gelatieri: Giulia Mascia e Pierpaolo Portogallo

Franchising e indipendenza

Scrive Pierpaolo Portogallo: il testo di Michele Fino afferma che le gelaterie in franchising non possano essere considerate artigianali. Ma non tutti i franchising sono uguali. Ci sono modelli che si limitano alla rigenerazione di un prodotto industriale o direttamente alla sua distribuzione, ma esistono anche franchising virtuosi in cui si tramanda un know-how tecnico, un metodo produttivo coerente con l’artigianalità, pur mantenendo la produzione interna e manuale. Io stesso ne sono un esempio diretto: ho tre gelaterie a Firenze, di cui due con laboratorio. In una centralizzo la produzione, ma la qualità artigianale rimane intatta perché trasformo la materia prima nel mio laboratorio, manualmente, con cura e competenza. Il fatto che esista un modello organizzativo strutturato non toglie nulla alla natura artigianale del prodotto. Se prendiamo come paragone la pasticceria, nessuno mette in dubbio l’artigianalità di grandi maestri come Iginio Massari o Sal De Riso, pur con laboratori di grandi dimensioni e volumi importanti: arrivano a produrre 10mila panettoni al giorno con 1 macchinario eppure viene ancora chiamato artigianale. La differenza non sta nel modello aziendale, ma nel processo produttivo: nella trasformazione vera della materia prima da parte di un artigiano, e non nella semplice rigenerazione di basi industriali. Proposta: non escludere a priori i franchising, ma distinguere tra modelli dipendenti da una centrale di produzione industriale e quelli autonomi nella lavorazione. La discriminante deve essere il controllo diretto del processo produttivo e l’assenza di semilavorati compositi, non la forma giuridica o la rete di punti vendita.

La risposta di Fino: la questione posta da Pierpaolo merita una risposta accurata perché sottende forse una confusione tra quello che è un franchising e quello che non lo è. Un franchising è un luogo nel quale non sussite una autonomia produttiva e di assortimento in capo al franchisee: una gelateria in franchising non può decidere di fare dei gusti nuovi rispetto a quelli nel catalogo del franchisor; non può innovare le ricette dei gusti, perché queste ultime appartengono al franchisor; non può vendere prodotti che non siano licenziati dal franchisor. È proprio sulla mancanza di autonomia che si basa il contratto di franchising: il franchisee è un imprenditore che, per poter sfruttare il nome della catena a cui aderisce – con tutto ciò che ne consegue (pubblicità a carico del franchisor, forniture di arredi, materiali informativi e altri segni di riconoscimento) – accetta di non esercitare quella autonomia produttiva che è essenziale all’artigianalità.

Mini cono gelato di Stefano Ferrara

Artigianalità e scelte produttive

Al panettone di Massari o alla pasticceria di Sal De Riso è associata la definizione di artigianalità perché a questi maestri sono attribuite le ricette e le scelte produttive che stanno alla base delle realizzazioni. Ma attenzione: le imprese di Sal De Riso e Igino Massari saranno imprese artigiane solo se i numeri di dipendenti assicurano che il lavoro prevalente sia quello del maestro e dei suoi famigliari: io, Michele Fino, non conosco le consistenze di quelle aziende, ma mi permetto di dubitare che legalmente esse siano ancora imprese artigiane. Più probabilmente sono industrie alimentari con una peculiare manualità prevalente nell’uso di macchinari e processi standardizzati.
L’esercente di un punto vendita comunque qualificato – in franchising oppure in dipendenza diretta del produttore del gelato (già mantecato o da mantecare), senza la possibilità di esercitare una autonomia produttiva – non può qualificarsi come artigiano: chi apre e gestisce un rivendita dei prodotti di Massari o De Riso non è un artigiano. Perché diversamente andremmo a dare peso solo al numero di addetti nel locale e non al modo in cui si fa il gelato. L’esempio che offre Portogallo, relativo alla propria organizzazione aziendale, con un centro produttivo e tre punti vendita, rientra a pieno titolo nel modello proposto con il mio articolo, se i numeri di dipendenti mantengono l’azienda nell’ambito dell’impresa artigiana.

Coppetta gelato di Tutto Gelato a San Giorgio a Cremano

Semilavorati e trasformazione

Scrive Portogallo: concordo sulla necessità di limitare l’uso di semilavorati complessi, che annullano le differenze tra gelati e livellano verso il basso la qualità sensoriale. Ma bisogna fare chiarezza su cosa intendiamo per ingredienti accettabili: cioccolato, frutta secca, zuccheri, paste di frutta secca pure (senza emulsionanti o additivi e coloranti) dovrebbero essere ammessi. Quello che va escluso sono i surrogati, i coloranti, i grassi idrogenati e soprattutto i monodigliceridi degli acidi grassi che uniformano struttura e spatolabilità a scapito della vera competenza artigiana. Questo compromette radicalmente uno dei criteri fondamentali della valutazione del gelato artigianale: la consistenza. I gusti risultano pressoché identici per texture e spatolabilità, rendendo vano il lavoro di chi ha evitato questi additivi, per esaltare la propria capacità tecnica. Il rischio è evidente: se accettiamo che un gelato sia fatto con additivi emulsionanti di questo tipo, che senso ha parlare di artigianalità, di creatività e di padronanza tecnica? Qualsiasi operatore, anche senza esperienza, può ottenere una consistenza perfetta utilizzando questi additivi.

La risposta di Fino: la nota di Portogallo sul punto è assolutamente corretta e mette a punto quanto scrivevo a proposito del fatto che il gelato artigianale deve essere frutto della competenza del gelatiere, non di scorciatoie. Le paste di frutta, i canditi, il cioccolato erano già previsti nella mia proposta. Molto opportuno il divieto di mono e digliceridi degli acidi grassi che livellando la diversità e rendono meno distintive le qualità del gelatiere alla base del prodotto.

Ingredienti freschi

Scrive Portogallo: appoggio con convinzione il criterio del 50% di ingredienti freschi e deperibili, come latte fresco, panna, frutta. Questa soglia consente di garantire tracciabilità, trasparenza e valorizzazione del lavoro artigianale. È giusto che ogni gelateria esponga un libro ingredienti completo, accessibile al pubblico, e che questo rifletta una vera attività di pesatura, trasformazione e bilanciamento eseguita in loco.

La risposta di Fino: gli ingredienti freschi per poter utilizzare la dizione ulteriore di “fresco” in riferito al gelato artigianale consentono un’ulteriore segmentazione dell’offerta. È ovvio che il gelato artigianale al cioccolato difficilmente potrà essere fresco, senza che questo minacci in alcun modo la sua qualità. Viceversa è un valore, anche nel quadro di una filiera che collabora a migliorare reputazione e ritorni, che un’eccellente trasformazione di materie prime fresche renda riconoscibile queste caratteristiche del processo.

Artigianalità e numero di dipendenti

Argomenta Portogallo: trovo una criticità limitare l’artigianalità a chi ha massimo 18 dipendenti (come da legge 443/85) perché non tiene conto della realtà contemporanea. La mia gelateria ha 20 dipendenti: non perché sia industriale, ma perché produco anche i coni artigianali, fatti a mano, tutto il giorno. Per garantire ferie, malattie e rotazioni, è necessario un numero adeguato di personale. Propongo quindi di calibrare il limite dei dipendenti non con un numero fisso, ma su base di monte ore lavorative, o in rapporto al fatturato, escludendo i lavoratori part-time con meno di 8 ore giornaliere, ad esempio.

La risposta di Fino: capisco l’obiezione e soprattutto apprezzo la trasparenza della motivazione. Esiste un limite legale però a ciò che si può definire impresa artigiana. Se si supera questo limite abbiamo una inevitabile confusione: l’impresa non è artigiana ma il gelato ambisce ad essere artigianale. Come se ne esce? Potrebbe avere senso, anche in questo caso, una previsione normativa che agganci il termine “artigianale” alla quantità di gelato prodotto annualmente, come avviene per la birra artigianale. Certamente, far prevalere la quantità realizzata sulla forza lavoro impiegata (non penalizzando quindi chi impiega più personale, per svolgere manualmente più fasi) potrebbe rappresentare una strada. Altrettanto certamente, dovendo stabilire quantità di prodotto entro cui rimanere per essere gelaterie artigianali esporrebbe ad ulteriori critiche di arbitrarietà. Ma è giusto provarci.

Mantecatura del gelato in loco

Portogallo: anche qui serve più flessibilità. Un laboratorio centralizzato proprio, con controllo diretto e che serve meno di 3 punti vendita, non snatura la qualità artigianale. Purché ci sia trasparenza e controllo, non vedo perché escludere questa possibilità: la gestione di piccoli poli produttivi centralizzati è del tutto coerente con la definizione di artigianalità, soprattutto in un contesto urbano.

Fino: qui devo scusarmi io per la mancanza di chiarezza della mia prima stesura. È per me ovvio che, parlando di un centro di produzione e massimo tre punti vendita che si intendono necessariamente molto prossimi (anche se non necessariamente nello stesso comune) lasciava aperta la possibilità della mantecatura nel centro di produzione unico, anche per garantire al titolare il controllo fino alla carapina del prodotto destinato alla vendita.

Artigianato, innovazione e modelli di impresa

Pierpaolo Portogallo conclude la sua mail scrivendo: «Il rischio più grande in tutto questo dibattito è quello di trasformare una nobile battaglia per la qualità in una chiusura corporativa che penalizza l’innovazione, le nuove imprese e la crescita. L’artigianalità non si misura con un’etichetta legale o con il numero di sedi, ma con il rispetto del processo, con l’autenticità degli ingredienti, con la manualità e la responsabilità diretta dell’artigiano. Per questo motivo, invito a rivedere alcuni punti della proposta aprendo il tavolo a una riflessione condivisa, inclusiva e concreta. Solo così potremo davvero tutelare e rilanciare l’eccellenza del gelato italiano nel mondo. Con rispetto e spirito costruttivo».
Grazie di cuore Pierpaolo: il tuo invito è stato accolto e la discussione produttiva continua, proprio grazie a stimoli ben argomentati come i tuoi!

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