Un sacco di farina a 25 euro, 250 grammi di caffè a poco più di 10 euro e un chilo di pasta al costo di 14 euro. Non è una svista né un errore di stampa, ma le cifre impietose della lista della spesa a Gaza. Al mercato nero, dove la fame si scontra con prezzi insostenibili e una rete di tangenti che gonfiano i costi, ogni acquisto diventa una sfida quotidiana tra sopravvivenza e disperazione. A raccontare la situazione dalle pagine de Il Corriere della Sera è il reportage di Greta Privitera, fotografando ciò che avviene quotidianamente per chi decide non andare nei centri di distribuzione, considerati da molti troppo pericolosi a causa dei bombardamenti.
Le bancarelle sul lungomare di Al-Mawasi, il gigantesco campo profughi di Gaza, sono l’unica destinazione esistente per cercare di comprare qualcosa evitando le trappole mortali degli aiuti ufficiali. «Qui con i cento shekel che ho in tasca cerco di comprare qualcosa, ma con 25 euro si prende solo un chilo di farina, che già è qualcosa», racconta Salma. La sua famiglia, come molte altre, vive con un solo pasto al giorno e con il terrore che il piccolo Muhammad possa piangere per la fame fino ad addormentarsi disperato in un angolo della loro tenda, da mesi la loro unica casa.
Condizioni disumane, accompagnate da prezzi dieci volte più alti rispetto al passato. Lo conferma il prezzario aggiornato fornito al quotidiano milanese da un commerciante della Striscia. Un chilo di pomodori costa 25 euro, di patate 13, di limoni 26, di fichi 40, di piselli 25. Un chilo di pasta costa 14 euro, di riso 23, di fagioli secchi 8. Duecentocinquanta grammi di caffè 102 euro, 700 grammi di margarina 46. Un chilo di zucchero 160 euro, un pollo 100. Anche prodotti considerati di lusso, come cioccolato e pannelli solari, hanno subito aumenti stratosferici, spinti dai costi di trasporto e da un’estesa rete di tangenti.
Soldi, come spiegato dallo stesso venditore, che i commercianti devono versare a differenti intermediari: funzionari israeliani, milizie locali e persino gang criminali che garantiscono la sicurezza della merce nei lunghi tragitti dal valico di Kerem Shalom fino ai magazzini interni. «Lo so che è una vergogna vendere a prezzi così alti a gente che muore di fame», racconta l’uomo, «ma il costo del trasporto e il rischio che corriamo per fare arrivare la merce sulle bancarelle è molto grande». Sì, perché a Gaza il cibo e i beni di prima necessità entrano esclusivamente tramite gli aiuti internazionali e le poche consegne commerciali autorizzate.
Un meccanismo complesso e rischioso, che spiega anche il fatto che sui banchi dei mercati improvvisati si trovino prodotti con il marchio della Gaza Humanitarian Foundation (Ghf). «C’è chi prende il pacco umanitario e rivende il contenuto. In questo caso, ad aumentare i prezzi contribuiscono la fatica del trasporto e il rischio che si corre a mettersi in fila ai centri di distribuzione», commenta un operatore umanitario.
Si tratta di un sistema di speculazioni che, tuttavia, rimane la spina dorsale di un equilibrio instabile che tiene in vita a caro prezzo una popolazione esausta. Le conseguenze di questa realtà sono drammatiche. Salma racconta di aver dovuto rinunciare a mangiare per giorni per permettere al figlio maggiore un piccolo lusso, una barretta Mars, pagata 15 euro. Un costo con cui che avrebbe potuto acquistare un chilo di pasta, mentre continua la conta silenziosa di vite stroncate da una carestia di massa senza precedenti.
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