Apri il frigo: due zucchine, un uovo, una cipolla. Una volta si sarebbe improvvisato uno sformato, una frittata, una zuppa. Oggi si apre Google. O Instagram. “Ricetta con zucchine e uova”, “cosa fare con tre ingredienti”, “idea veloce cena”. La rete è diventata la nostra memoria gastronomica, la nostra voce fuori campo, il nostro manuale d’istruzioni per ogni gesto ai fornelli, anche il più banale. Non cuciniamo più, seguiamo. Non inventiamo, riproduciamo. E guai a sbagliare: un uovo troppo cotto, una pasta scotta, diventa una foto non instagrammabile. E questo si sa, non va bene.
Non è solo una questione generazionale. È culturale. Forse è anche sintomo di una perdita di fiducia nei propri gesti e nei propri gusti, compensata da una sovrabbondanza di contenuti, video, step-by-step, ricette “facili”, “veloci”, “con ingredienti che hai già in casa”.
Secondo Google, la ricerca di ricette rimane una costante nel quotidiano degli italiani: i picchi si confermano ogni giorno tra le 17 e le 20, quando si decide cosa cucinare. Nel 2024, le ricerche “come fare…” relative alla cucina si sono consolidate tra le più frequenti: più del 70 per cento degli italiani ha cercato almeno una volta al mese le istruzioni per preparare un piatto, e il tempo medio trascorso su contenuti culinari digitali supera ormai i trenta minuti al giorno tra blog, YouTube e TikTok.
I piatti più cercati? In cima alla classifica ci sono i Crumbl Cookies, biscotti americani decorati diventati virali grazie ai social, seguiti da lenticchie e spatzle. Completano la top ten: funghi sott’olio, risotto alla monzese, capretto al forno, smash burger, finocchi gratinati e casatiello napoletano.
Anche tra le preparazioni casalinghe spiccano ricerche quasi elementari: riso in bianco, maionese fatta in casa, frittata, pastiera, limoncello, couscous, lievito madre, popcorn. Non mancano neppure le domande di base: come cuocere la pasta, quanto tempo ci vuole per un uovo sodo, come si fa la besciamella.
Cucinare come sappiamo bene non è sempre stato così. C’erano i ricettari, spesso privi di dosi precise, fotografie o passaggi dettagliati. Bastava un titolo, una lista di ingredienti, un verbo all’infinito. Nessuna ansia da misurino.La fiducia era implicita: si dava per scontato che chi leggeva sapesse già distinguere un soffritto da un bollito. Un esempio su tutti è La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, pubblicato nel 1891 e ancora oggi considerato uno dei pilastri della cucina italiana. La sua ricetta della “minestra di riso e prezzemolo” recita: “Mettete il riso in brodo, aggiungete un poco di prezzemolo tritato e fate bollire.” Stop.
Nei quaderni scritti a mano dalle nostre nonne, spesso bastava una riga: “Torta di mele: 3 uova, 2 etti di burro, ucchero, i farina, mele qb, forno 180° 40 minuti”. Nessuna spiegazione su quando aggiungere le mele, se montare le uova, quanto deve cuocere. Si faceva e basta.
Il rischio non è quello di diventare dipendenti da uno schermo anche per pelare una patata: è quello di perdere la confidenza con il fallimento. Perché il cibo cucinato male è sempre meglio di quello mai cucinato. Lo so, sembra il solito discorso da boomer nostalgico della cucina “a occhio”. Eppure qualcosa si muove: la crescita dei corsi di cucina, dei laboratori condivisi, dei supper club non è solo una moda foodie, ma forse un tentativo collettivo di tornare a imparare come si faceva una volta, tra fratelli e sorelle, zie e nipoti, mentre si preparava il pranzo della domenica. Magari una frittata bruciacchiata, cucinata tra amici, senza tutorial, è proprio quello che ci serve per tornare a cucinare davvero. E no, non vale googlare “come si brucia una frittata”.
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