Il vino statunitense è un prodotto ibrido: nasce dalla terra californiana, parla francese, si commercializza in inglese, ma è stato coltivato, raccolto e trasportato per decenni in spagnolo e, soprattutto, in dialetto mixteco. È figlio, quindi, di una complessa genealogia culturale, forgiata dalla fusione tra innovazione agronomica e conoscenze contadine trasmesse oralmente attraverso le generazioni di lavoratori principalmente messicani.
Eppure, in questo maggio 2025, mentre la Napa Valley celebra Oscar Renteria, figlio di migranti, premiato come Grower of the Year, a poche centinaia di chilometri di distanza i funzionari dell’Immigration and Customs Enforcement (Ice) arrestano sette lavoratori agricoli in operazioni mirate nelle contee di San Luis Obispo e Ventura, tra cui appartenenti alla comunità indigena Mixtec.
photo credit: https://www.napagrowers.org
Le loro storie non appaiono sulle riviste di settore. Non ricevono premi. Vengono portati via in silenzio, con i figli lasciati soli nei parcheggi delle scuole. Questa è l’ossimorica realtà dell’agricoltura americana nel 2025: da un lato l’esaltazione pubblica del contributo ispanico, dall’altro la criminalizzazione sistemica di chi rappresenta ancora oggi la spina dorsale invisibile dell’intero comparto agricolo.
È una dissonanza strutturale, etica e politica, che minaccia non solo i diritti dei migranti, ma l’identità stessa della viticoltura statunitense.
Il legame tra Messico e viticoltura americana non è affatto recente. Ha inizio con il Bracero Program (1942–1964), quando gli Stati Uniti autorizzarono l’ingresso controllato di manodopera agricola messicana per far fronte alla carenza di lavoratori nel secondo dopoguerra. I braceros – i braccianti – divennero presto essenziali per l’agricoltura californiana, e da allora le comunità ispaniche non hanno mai abbandonato i campi.
Negli anni ’70 e ’80, con l’espansione qualitativa del vino americano (dopo il celebre Judgment of Paris del 1976), la presenza messicana si consolidò nelle vigne di Napa e Sonoma come forza-lavoro non solo esecutiva, ma progressivamente competente, specializzata, radicata. I figli dei braceros oggi non solo raccolgono uva: dirigono aziende, diventano enologi, entrano nelle università.
Nel corso dei decenni si è compiuto un processo sincretico profondo: i saperi agricoli delle comunità indigene — stratificati nei secoli e legati a un rapporto intimo con la terra — si sono intrecciati con le tecniche vitivinicole di matrice europea, dando origine a pratiche agronomiche ibride, adattate al paesaggio, al clima e alla logica produttiva nordamericana. Il risultato non è semplicemente un vino ‘americano’, ma l’espressione di una cultura enologica composita: mediterranea nella forma, mesoamericana nella sostanza, californiana nella sua geografia identitaria. Oggi, questo sincretismo è messo a rischio da una contraddizione politica profonda.
Lavoratori braceros messicani in attesa di lavoro (1954) credit https://digital.library.ucla.edu/catalog/ark:/13030/hb6p3007gj, CC BY 4.0
Le leggi federali sull’immigrazione restano ancorate a logiche securitarie e punitive, mentre l’economia agricola, e in particolare la viticoltura, continua a dipendere in modo massiccio da manodopera migrante, spesso priva di documenti. Le retate dell’Ice nella Central Coast — documentate da SFGate il 10 maggio 2025 — rivelano l’entità della frattura. Arresti senza mandato, intimidazioni in luoghi pubblici, separazioni familiari: tutto questo in comunità che da decenni vivono e lavorano stabilmente sul territorio. La mancanza di protezione legale per le lingue indigene (come il Mixteco) aggrava ulteriormente la vulnerabilità dei lavoratori.
Allo stesso tempo, il mondo del vino moltiplica premi, festival e celebrazioni in onore di viticoltori ispanici. Il paradosso non è solo retorico: è operativo. L’industria vitivinicola non potrebbe sopravvivere senza l’apporto quotidiano di queste comunità, eppure le politiche che regolano la loro presenza sul territorio li trattano come minacce piuttosto che come partner produttivi.
La posta in gioco non è solo sociale, ma identitaria. Espellere i lavoratori ispanici dalla viticoltura americana equivale a recidere una radice viva. Significa rinunciare alla memoria delle stagioni, dei metodi, dei territori. Significa indebolire un intero modello produttivo costruito non sulla tecnologia, ma sulla resilienza e l’esperienza umana.
Secondo il California Farm Bureau, nel 2025 si registra un deficit strutturale del 20% nella forza lavoro agricola stagionale. Le aziende vitivinicole, per la prima volta, valutano il ricorso a robot per la vendemmia su larga scala — ma l’intero settore riconosce che nulla può sostituire la precisione, la cura e l’intelligenza pratica dei lavoratori umani, soprattutto nei vigneti di alta qualità.
Celebrare Oscar Renteria o Gustavo Brambila è un gesto importante. Ma se non è accompagnato da una revisione sostanziale delle politiche migratorie, resta un tributo simbolico, scollegato dalla realtà quotidiana della maggioranza dei lavoratori. Il riconoscimento dell’apporto culturale e produttivo delle comunità ispaniche al vino americano deve passare da una legittimazione legale, dalla creazione di corridoi migratori sicuri, da un accesso equo alla cittadinanza agricola.
Il vino è memoria. E la memoria, quando è amputata, non produce cultura: produce oblio. La viticoltura americana si trova davanti a un bivio. Può continuare a beneficiare silenziosamente di una manodopera che rifiuta di legittimare; oppure può scegliere la strada della coerenza, integrando nella propria governance agricola il riconoscimento formale di chi quella cultura l’ha resa possibile.
Il legame tra America e Messico non è più solo storico: è metabolico. È scritto nella linfa della vite, nei calli delle mani, nel sapore stesso del vino. Spezzarlo oggi, per miopia politica, non significa solo violare diritti umani: significa avvelenare le radici del proprio futuro.
“The land is so old, so patient… but the people who work it must suffer, and endure without roots.”
— John Steinbeck, The Grapes of Wrath (Furore in italiano)
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