Quando Andoni Luis Aduriz (Mugariz) sul palco del congresso Madrid Fusión 2025 ha cominciato a fare domande senza mai fornire risposte, soluzioni o conferme, pareva solo una provocazione. Non era così. Nel suo intervento puntava a sollevare questioni, mettere in moto processi, idee, persino qualche sorriso. Con la sua maglietta verde con la famosa scritta No sé (non so) ha lanciato verso il pubblico 87 domande senza risposta, un po’ come anni fa faceva il regista Romeo Castellucci della Socìetas Raffaello Sanzio in una performance chiamata Uovo di Bocca. Allora erano domande rivolte a un Dio silente, oggi a un pubblico fatto di addetti ai lavori ma anche di consumatori, per questo in qualche modo partner in affari di ogni ristorante in cui investono i loro soldi. In entrambi i casi le domande contengono in sé una risposta in cerca di cassa di risonanza.
Nell’intercettare le prospettive future di un intero comparto, lo chef basco ha posto questioni su cui si dovrebbe ragionare. Per esempio se guide, classifiche, internet non stiano uniformando il mondo della ristorazione o se, per caso, non esista ormai un commensale globale con gli stessi gusti in tutto il mondo: uno che va in cerca di cibi fermentati, cotture alla brace, grandi cucchiaiate di caviale o piatti vegetali giocati su un solo ingrediente, tanto per citare qualcuna delle tendenze più diffuse oggi. In questi termini, la sfida del futuro sta proprio nel conservare la propria identità riuscendo a incontrare i gusti di un pubblico sempre più uniformato su certe tendenze mondiali.
Si tratta di non dispendere un patrimonio culturale ma anche fare i conti con la realtà attuale e quella di un futuro non così lontano, quando anche l’Intelligenza Artificiale si porrà come variabile in gioco, capace di sfornare menu come pizzette rosse. Non è un’eresia, e basta curiosare tra gli esperimenti portati avanti da due assi come Carlo Cracco e Eneko Atxa (Azurmendi) per rendersene conto, il primo con AI-Gusto (addestrata sulle sue ricette), il secondo con la piattaforma Delicia.ai (che elabora dati per creare ricette a partire da strumenti, materiali, forza lavoro a disposizione).
E se già oggi i locali fotocopia che troviamo un po’ ovunque possono rivelarsi solo grandi fuochi di paglia, non vogliamo immaginare cosa succederà domani, quando il menu di un qualsiasi posto senza velleità autoriali verrà costruito su un algoritmo che mette insieme costi, risorse, coperti suggerendo potenziali combinazioni di menu. Ma questi strumenti potranno intervenire nell’analisi dei costi, gestione delle materie prime, ottimizzazione del lavoro anche nelle cucine di fascia più alta, a tutto vantaggio di chi svolge malvolentieri i compiti di ragioniere del cibo e preferisce concentrarsi su altro. «Pensatela un po’ come un roner o un microonde» diceva Atxa un anno fa, invitando le persone a guardare all’AI non come un antagonista dello chef ma come un alleato per migliorare la gestione del lavoro. Mandando in pensione vecchi lavori e creandone di nuovi: aspettiamoci degli AI manager come ausilio per la profilazione dei clienti, l’adeguamento dei menu o l’efficienza aziendale. Perché, anche se ci piace più guardare la poesia, i ristoranti sono aziende prima che spazi di creatività: non basta fare il piatto più buono del mondo se poi conti non tornano. Lo sa bene uno dei più importanti chef di tutti i tempi, Ferran Adrià, impegnato con Aduriz al MACC, Madrid Culinary Campus, sorta di campus universitario di gastronomia dove ampio spazio è dedicato alla gestione aziendale.
La sostenibilità economica è uno dei temi caldi del mondo della ristorazione che oggi si accapiglia sulla fine presunta o reale del fine dining. Tanti ristoranti chiudono sotto i colpi di una crisi che più che del comparto è dell’intera società. Non tacciateci di catastrofismo: l’evidenza delle congiunture geopolitiche non necessita di ulteriori dettagli. A fronte di un’incertezza diffusa, c’è una regola consolidata: muore quel che non cambia. Il fine dining come lo conosciamo ora tra qualche anno potrebbe non esistere più, come è praticamente scomparso un modello di alta cucina che era in auge qualche decina di anni fa. Negli stili di vita, nella cultura, nella moda, le tendenze sono destinate a essere superate, dimenticate e talvolta recuperate. Cosa ne è rimasto delle spume e delle sferificazioni che trovavi un po’ ovunque sul finire del secolo scorso? Gigionerie naif tremendamente datate se non necessarie al piatto. Abbiamo già registrato il ritorno a un certo classicismo, alleggerito di dosi extra di colesterolo grazie proprio alle nuove conoscenze, così anche una decrescita felice che acchiappa istanze e tecniche dal fine dining e le trascina giù, in localetti divertenti e pieni di belle energie, che tagliano orpelli e costi a beneficio di quel che c’è nel piatto e nel bicchiere. E che dire del gusto ritrovato per il selvatico? E che dire del gusto ritrovato per il selvatico? Di terra, di mare, vegetale: la materia prima trionfa, occhieggiando a un certo brutalismo estetico, quasi a sottolineare la sacralità di quel che c’è nel piatto. Frollature estreme, cotture a fiamma viva, affumicature segnano la strada di altre tendenze, mentre scommettiamo sulla riscoperta delle potenzialità del vapore in accordo con un salutismo interiorizzato che spinge per bevute low alcool e nuove declinazioni del beverage.
Michele Casadei Massari. Foto: Azzurra Primavera
Quale che sia la moda gastronomica in arrivo, per immaginare il futuro si deve piuttosto guardare al ristorante nel suo complesso, da prendere come azienda e come luogo in cui trascorrere una fetta di vita più ridotta: da una parte i dipendenti sempre meno disposti a cementarsi in cucina per giornate intere, dall’altra i clienti, sempre più insofferenti a lunghe maratone gastronomiche. Non è un caso che in certe insegne si lavori con il cronometro alla mano: Lucciola, a New York, che fa un lavoro sartoriale sui suoi clienti, nel prendere la prenotazione insieme a esigenze alimentari, intolleranze o preferenze, vuol anche sapere quanto tempo si ha a disposizione – «qui vanno tutti di fretta» dice Michele Casadei Massari – mentre da Gucci Osteria, a Beverly Hills, Mattia Agazzi orchestra a pranzo un degustazione in poco più di mezz’ora, mentre al Reale si esce in un paio di ore (anche se non sono mancate polemiche sugli orari dettati da Romito). Il tempo così diventa un ingrediente, anche perché, spiega Alessandro Gilmozzi, l’intervallo ideale tra un piatto e l’altro dovrebbe essere intorno ai 7 minuti, per non alterare il processo digestivo. Lo chef di El Molin di Cavalese riferisce di uno studio fatto con un gastroenterologo. La collaborazione con scienziati, medici, nutrizionisti è una realtà costante degli ultimi anni: lo chef non è solo uscito dalle cucine, ma è anche andato a bussare in altri laboratori, per imparare qualcosa in più. Lo sanno i migliori professionisti, che da soli non si va avanti.
René Redzepi
Pop up, temporary restaurant, cucine itineranti, serate speciali e collab fulminanti sono ormai una prassi che forse risponde a una istanza: cucinare non basta più. Non basta fare giorno dopo giorno una proposta di qualità, bisogna proporre sempre qualcosa di speciale, forse per mettere in circuito energie, idee e ispirazioni, forse per tenere viva l’attenzione di un pubblico facile a distrarsi, difficile dirlo con certezza. Quel che è certo è che la cucina quotidiana è sostituita dall’evento, lo straordinario riempie le caselle del calendario alimentando la Fomo (acronimo inglese di Fear of missing out, ovvero “paura di essere tagliati fuori”) degli appassionati. René Redzepi, il capofila della rivoluzione nordica, lo sa bene: gran maestro dei pop up, ha raccontato recentemente che il Noma 3.0 non sarà aperto per più di tre mesi l’anno, diventerà un laboratorio dove testare le idee di un ecosistema creativo, un centro di innovazione gastronomica che si occuperà di no profit, ricerca scientifica, collaborazioni con aziende e start up. I soldi arriveranno da lì, il ristorante non sarà che un hobby, un posto dove divertirsi, ma non per mantenersi. Seppure i ristoranti sono aziende spesso dai margini risicati, la sfida di Redzepi è un grandissimo cambio di prospettiva. Lui spiega che se non funzionerà è pronto a tornare sui suoi passi, ma c’è da capire come questo potrà influire su tutti quelli che hanno introiettato la sua lezione.
The Alchemist
Che sia finita l’epoca del minimalismo nordico? Quello stile che fa anche scopa con l’esigenza di tagliare i costi (via tovaglie, via orpelli, via lusso esibito, via anche i molti camerieri: per la prima volta essere di tendenza non confliggeva con le esigenze di cassa). Nello stesso Nord Europa di Redzepi c’è il più fulgido esempio di massimalismo futuribile. All’Alchemist di Copenaghen una cena non è una semplice cena: è un film di fantascienza, un giro di giostra architettato da un Cirque du soleil cupissimo, una psicadelia piena zeppa di messaggi talvolta così didascalici da essere disarmanti ma comunque travolgenti. Occhi, animali, teste da aprire: nella tana dell’Alchimista tutto diventa spettacolo lisergico. Perché forse, come detto prima, cucinare non basta più. Lo dice anche Tommaso Zoboli, classe 1998: «Non siamo solo ciò che cuciniamo, ma anche quel che comunichiamo, quel che gli altri percepiscono di noi, e bisogna avere il controllo sul nostro messaggio».
Tommaso Zoboli
Ecco allora che da un anno e mezzo a Modena porta avanti un progetto articolato con un team di giovanissimi (in 4 non fanno 100 anni). Si tratta di un ristorante concettuale e divertente, che lui definisce uno «spazio creativo in costante movimento che si adatta ai pensieri e ai piatti come la messa in scena di uno spettacolo». Patrizia è un ristorante che si veste delle sue idee e ogni stagione cambia tutto: cambia la sala immersiva, cambia menu, cambia il modo in cui lo racconta, cambia colonna sonora, cambia sito e social, cambia, cambia cambia. Le sue sono azioni estetiche performative che caratterizzano il locale per il tempo di una stagione. Si dirà che la piena maturità si raggiunge con il procedere degli anni, perché la tecnica agli esordi spesso non è adeguata (come ha ammesso qualche tempo a Identità Golose fa l’ex ragazzo prodigio Jeremy Chan, di Ikoy) e la visione prende forma e si affila nel tempo, come ha spiegato Niko Romito a proposito di quella pulizia e profondità che sono sua cifra stilistica. Se vogliamo immaginare il futuro, però, chi dovremmo ascoltare se non uno che ha la freschezza e l’energia per immaginarlo e costruirlo? «Lasciare spazio ai giovani» ha chiesto senza Tommaso Zoboli dal palco di Identità Golose nel 2025. Lo dice, e a ragione, perché fa parte di una generazione che il futuro lo vivrà: avere vent’anni (o molti di meno) vuol dire responsabilità.
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