E se lo chiamassimo semplicemente āil salistaā? PerchĆ© dentro alla mancanza ormai cronica di personale nella ristorazione italiana ā a tutti i livelli, da Autogrill al locale stellato fino alla trattoria sotto casa ā contano certamente fattori più sostanziosi: i salari bassi, i turni scomodi, le prospettive di carriera scarse ed incerte. Ma chi segue i ragazzi nellāavvicinarsi a questo lavoro racconta che lƬ, in un angolino della testa, a smorzare il loro entusiasmo cāĆØ anche quella brutta parola. Cameriere. Di fare il cuoco si ĆØ orgogliosi; āsono un barmanā te lo spendi alla grande con gli amici. Ma quella parola brutta e un poā servile (dāaltronde in Francia li chiamano āserveurā) nessuno la vorrebbe sul biglietto da visita. Cosa fai nella vita? āLa camerieraā. Urge unāaltra definizione.
E urge che al cambiamento di nome si accompagni un cambiamento reale del mestiere di chi sta lƬ, in prima linea, a contatto diretto con il cliente, la prima faccia che appare a chi varca la soglia del locale. PerchĆ© si possono cambiare le parole quanto ci pare, ma se il lavoro che ti viene offerto ĆØ portare piatti e sparecchiare, e nientāaltro, allāinfinito: beh, come ci si può stupire se un giovane ne sta alla larga, o se scappa alla prima occasione?
Foto di Kate Townsend su Unsplash. In apertura, foto di Valentin Kremer su Unsplash
Ciò premesso, partire dai dati divulgati in novembre dallāEpam di Milano, quelli finiti su tutti i giornali sulle diecimila paia di braccia che mancano allāappello nella ristorazione ambrosiana, costringe ad andare ben aldilĆ della vecchia diatriba. Da una parte chi reagisce dicendo: basterebbe pagarli meglio. Dallāaltra si ribatte: basterebbe avere più voglia di lavorare. Ć ovvio che se le posizioni restano queste non se ne viene a capo. Ma di fronte alla inesorabile complessitĆ del problema (economico, psicologico, culturale, sociale etc.) nel mondo della ristorazione cāĆØ chi sta lavorando per cambiare le cose. CāĆØ una luce in fondo al tunnel, insomma.
Ma il tunnel ĆØ lungo. PerchĆ©, come spiega Diego Montrone, che da decenni con la scuola Galdus istruisce futuri cuochi, pasticceri e camerieri (o salisti che dir si voglia) Ā«il peggio deve ancora arrivareĀ». SƬ, perchĆ© con la crisi di manodopera attuale il calo demografico non cāentra niente, nonostante quanto si ĆØ scritto. Ā«Le conseguenze del crollo delle nascite stiamo iniziando a vederle noi, a scuola, solo adesso. Proiettando i dati a due anni, vuol dire che la situazione nella ristorazione diventerĆ ben più critica tra il l 2025 e il 2026Ā». Cosa accadrĆ ? Ā«Semplicemente che tanti dovranno chiudere per mancanza di personaleĀ».
Inevitabile? Ā«Sì . Posso dire anche chi sarĆ a chiudere. ChiuderĆ chi si presenta da noi a giugno chiedendo di trovargli dieci ragazzi per la settimana successiva, chi pensa di trovare personale con un annuncio su un sito, chiuderĆ chi manda avanti il locale facendo lavorare il cugino o lāamico del cugino: perchĆ© prima o poi i cugini finiscono. Non chiuderanno gli imprenditori che seguono i āloroā ragazzi giĆ nelle scuole fin dal primo anno, che li coltivano e li fanno sentire parte di un progetto e di un percorso di crescita: di ruolo, di stipendio, di testaĀ».
Il āsalistaā del futuro, spiega Montrone, ĆØ molto più di un portapiatti, capisce di cibo, si intende di vino ed ĆØ anche un conoscitore delle neuroscienze: perchĆ© a determinare la soddisfazione del cliente, a attivare il cocktail di endorfine che lo porta a stare bene, uscire contento e voler tornare, entra in modo decisivo, insieme al contenuto del piatto, lāesperienza di sala. Ā«Se invece per il vostro ristorante cercate solo uno che porti i piatti avanti e indietro ā avvisa Montrone ā ĆØ giusto che chiudiateĀ».
La crisi di vocazione riguarda un poā tutte le figure professionali dellāhospitality. Resistono, anche se con qualche difficoltĆ , i corsi per cuoco e per pasticcere, che continuano a risentire dellāeffetto positivo dei talent show televisivi. Si svuotano i corsi per il personale di sala, vivono una crisi profonda gli istituti alberghieri di Stato, con iscrizioni crollate in un biennio del 47 per cento: un dato eclatante, figlio anche della incapacitĆ dellāistruzione pubblica di raccordarsi efficacemente col mondo del lavoro. Resistono le scuole professionali private. Ma lāapprodo ĆØ comunque il ribaltamento del rapporto tra domanda e offerta: una volta era il ristoratore a scegliere lo staff, oggi ĆØ il lavoratore a scegliere il locale. Tocca al locale rendersi appetibile.
Negli ultimi mesi di questāanno il fabbisogno nazionale di assunzioni nella ristorazione era stimato in 152mila unitĆ , e ā nei panel di Confcommercio ā per il 60 per cento dei casi i ristoratori hanno incontrato difficoltĆ , soprattutto al Nord, nel reperire il profilo che cercavano. Esattamente il doppio del pre-Covid. Detto in sintesi: il mercato tira, la gente esce ancora per andare a pranzo e a cena; la zavorra che rischia di affossare centinaia di imprese ĆØ la mancanza di personale.
Lo sa bene Giampaolo Grossi, amministratore delegato di Giacomo, holding che dal primo ristorante storico a Milano, in via Pasquale Sottocorno, ĆØ arrivato a undici vetrine ā tra ristoranti, bistrot e botteghe ā sparse per lāItalia. Duecento dipendenti, e anche lui fatica a riempire tutte le caselle. Ā«Mettere i ragazzi in una prospettiva di crescita ĆØ fondamentale: i manager di domani saranno ragazzi che oggi lavorano in sala, cosƬ come io ho iniziato pulendo i bagni. Poi cāĆØ gente che brucia le tappe e cāĆØ chi richiede più tempo, ma io devo dare a tutti la stessa possibilitĆ di arrivare dove desidera, di correre, anche di sbagliare. Il difficile ĆØ quando ti trovi davanti uno che non ha voglia di mettersi in gioco. Ma lo capisci giĆ al primo colloquio, dalle domande che ti fa. Sempre le solite treĀ».
Le solite tre: quanti soldi, quante ore, quante ferie. Saranno ben domande legittime, perbacco! Ā«Assolutamente si. Se però insieme a quelle non mi chiedono ācosa vi aspettate da me, cosa posso fare per il locale?ā allora iniziamo male. Anche perchĆ©, diciamolo: ĆØ un lavoro duro. Ha aspetti persino militareschi, non a caso parliamo di ābrigata di cucinaā di ābrigata di salaā. CosƬ per affrontarlo serve passione, se lo scegli perchĆ© non sai cosāaltro fare nella vita sei destinato a mollareĀ».
Voi ristoratori non avete proprio niente da rimproverarvi? Ā«Dando per assodato che le regole salariali e contributive vanno rispettate, in questi anni siamo stati carenti nellāascolto. Non ci siamo chiesti a sufficienza come le persone si sentivano trattate, con che spirito venivano al lavoro. In questo vedo dei miglioramenti. E non solo in questoĀ». Per esempio? Ā«Nei ristoranti esistevano forme di nepotismo che abbiamo scardinato. Oggi un ragazzo più giovane può avere uno stipendio maggiore di una persona che magari ĆØ da anni nello stesso ruolo e che non ĆØ cresciuta. Credo nella meritocrazia. CāĆØ sempre una seniority, cāĆØ lāattenzione per chi ha famiglia, ma non può diventare un nascondiglioĀ». Quante sere passa alla settimana nei suoi locali? Ā«SetteĀ». Quante sere le capita di arrabbiarsi? Ā«Non mi arrabbio mai, lāho cancellato dal mio vocabolario. Se qualcosa non va bene, e succede, cerco di capire i motivi della situazione sbagliata, del gesto sbagliatoĀ».
Dentro al colossale mismatch ā in gergo da economisti ā raccontato dal rapporto Epam ci stanno tutte le figure della ristorazione: cuochi e sous-chef, baristi e āsalistiā. Ma ci sono anche, mischiati tutti insieme nelle gelide statistiche, i tanti universi paralleli del business del cibo, ognuno alle prese con difficoltĆ diverse, dove un McDonaldās ha esigenze lontane dai bisogni di Massimo Bottura. Ognuno reagisce a suo modo.
Guardiamo ai due absidi della galassia-cibo: il colosso Starbucks e il āSottoboscoā di Milano, piccolo e amabile ristorante in via San Luigi. Starbucks, che pure in America ha una recente storia di insurrezioni sindacali, in Italia ĆØ forse lāunico megabrand a non essere troppo in affanno sul fronte HR, risorse umane: i 25 addetti al nuovo negozio romano di via Cola di Rienzo sono stati trovati al volo, e lo stesso vale per le piante organiche degli altri negozi italiani.
Allāestremo opposto della galassia cāĆØ lui, Giorgio Raffaghelli, padrone del āSottoboscoā: Ā«In tre anni ho cambiato quindici camerieri e venti addetti alla cucina, un incuboĀ». Giorgio di colpe non se ne riconosce mezza: Ā«Pago anche i periodi di prova, e non tutti lo fanno. E sono chiuso domenica e lunedƬ, proprio per garantire la qualitĆ della vita mia e di chi lavora con me. Eppureā¦Ā» Dica. Ā«Eppure faccio i conti quotidianamente col menefreghismo, la sciatteria, persino i dispetti. Quello che arriva in ritardo e prima di entrare a lavorare chiede anche di fumarsi la sigaretta. Quello che spacca quattro bicchieri e si offende se glielo faccio notare. Quello che questo lavoro non lāha mai fatto e pretende di essere pagato come uno che sta in sala da ventāanni e che sa come si alza lo scontrino medio. Io un poā subisco e un poā reagisco, ma alla fine lāhanno sempre vinta loro, perchĆ© sanno che non posso permettermi di restare con nessuno in salaĀ».
E poi ci sono loro, le gambe su cui cammina tutto quanto: i 567mila dipendenti (ultima statistica Confcommercio) senza i quali gli 82 miliardi di incassi del settore non esisterebbero. E anche qua cāĆØ dentro di tutto: da chi ha scelto davvero questo come il lavoro della sua vita a chi a un ristorante ha bussato per mantenersi agli studi. O per pagarsi un lungo viaggio come G., che ha ventāanni e lavora nella pizzeria di una catena che va per la maggiore: Ā«Gli ho detto subito che sarei stata per poco. Mi hanno proposto un mese di prova e poi un contratto da stagista, ho accettatoĀ» Lavoro duro? Ā«Allāinizio molto faticoso, adesso ci trovo persino dei lati divertentiĀ». Parliamo di soldi. Ā«A me va bene cosƬ, anche se quando faccio i conti e scopro quanto guadagno in unāora di lavoro non sono felice. Ma se penso ai miei colleghi che con questo stipendio ci devono vivere mi domando come sia possibileĀ».
Bella domanda, G. Dāaltronde sullo sfondo della storia cāĆØ una giungla sindacale dove per lo stesso lavoro esistono ben trentadue contratti collettivi di lavoro firmati da sindacati diversi (compresi i sindacati fantoccio), e ogni titolare ĆØ libero di applicare quello che più gli aggrada. E poi si stupiscono se non trovano camerieri. Pardon, salisti.
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