Meno poesia, meno ossigeno, tanta sostanza. La degustazione fa giurisprudenza. Gli ultimi assaggi li abbiamo fatti a Verona durante Vinitaly. nello stand del Gambero. Il risultato finale è stato netto, sui bianchi il divario è imbarazzante, sui rossi c’è almeno discussione. Il tappo a vite si conferma come elisir di lunga vita per il vino, accentua il carattere fragrante e la tensione acida.
Il gruppo degli "Svitati"
L’unico goal messo a segno dal sughero è fonte anche di accese discussioni e pure piuttosto sensate. Al centro dei riflettori ci sono gli Svitati, un gruppo molto affiatato di vignaioli che si sono messi insieme per promuovere l’uso del tappo a vite, sfidando tradizioni e luoghi comuni ben radicati in Italia. Personaggi (svitati non solo di nome) come Walter Massa, Mario Pojer, Graziano Prà, Silvio Jermann, Frantz Haas Junior e Sergio Germano, ultimo arrivato nel gruppo (nelle foto), sono finalmente riusciti ad aprire un dibattito sempre più fervido e serrato. Di fatto tutta la magia del terroir, la varietà, l’accento dell’annata, lo stile del produttore è nelle mani della chiusura: piccoli dettagli determinano differenze enormi nel bicchiere. Il tema è sdoganato e sempre più messo a fuoco, il range di opzioni a disposizione dei produttori per sigillare le proprie bottiglie non è mai stato così ampio.
Tecnologia in netto miglioramento
Sul piano tecnologico il salto di livello dei fornitori è netto: «Il punto della questione è soprattutto la membrana che determina la permeabilità e la quantità di ossigeno che passa. Ora ne abbiamo diverse con specifiche tecniche che ci dicono esattamente quanto ossigeno al giorno passa nel vino e viceversa: così il produttore può scegliere quella che più rispecchia la sua idea di evoluzione sul singolo vino», racconta Emanuele Sansone, direttore generale Italia del Gruppo Guala Closures. La società dell’Alessandrino vende quasi 3miliardi di tappi a vite nel mondo, la fetta italiana è di circa 250milioni di unità. Una chiusura a vite si aggira tra i 10 e i 15 centesimi, un risparmio sensibile rispetto al sughero, se si considera che ci sono mono-pezzi che costano anche 1,5 euro l’uno. «Oggi ci siamo avvicinati molto alle piccole cantine perché diamo loro la possibilità di provare, mettendo a disposizione non solo tappi a vite, ma anche un tappatore e un tecnico per fare formazione, con possibilità di chiudere anche solo 100-200 bottiglie da testare nel tempo». Visti i risultati, in tanti decidono poi di sposare l’alluminio. In Italia, nonostante il calo dell’imbottigliato, nel 2023 si parla di una crescita del 10%, il tasso di adozione delle cantine è salito del 7%. Tra l’altro l’impatto ambientale del tappo in alluminio è minore rispetto al sughero: l’alluminio è riciclabile e i tappi sono costituiti dal 40% di metallo già utilizzato.
Si dimezza lo scarto produttivo
Se lo scarto produttivo del sughero è intorno al 5%, quello del tappo a vite si abbassa al 2%. «Ho provato di tutto. Le membrane con diversi passaggi di ossigeno hanno segnato una svolta. Il tappo a vite è la soluzione migliore perché così sai che il vino lo decide la natura, non ci sono deviazioni di percorso. E i problemi non riguardano solo il TCA (il temutissimo sentore di tappo, ndr), il sughero può contaminare il vino con colle, acido solforico o soda caustica – avvisa Walter Massa – Per esigenze estetiche ci sono in commercio tappi di sughero sempre più sbiancati e raffinati e i perossidi di ossigeno possono comportare problemi di ossidazione. In alcuni casi il tappo può cedere tannini, ma anche sensazioni di brett». Mario Pojer aggiunge anche un altro tema prezioso: «Imbottigliando con il tappo a vite possiamo ridurre di circa il 20% la quantità di solforosa. E, in più, il vino evolve con più precisione, perché la riduzione iniziale te la porti comunque avanti nel tempo». La differenza tra i suoi due Müller Thurgau 2007 è quella tra il giorno e la notte, quello chiuso in sughero ha un colore fango e gioca con l’aldilà, l’altro è ancora un fanciullo e ha tanto da dire. «Per me il bianco è eterno», sorride Mario.
La volta vera nei primi anni Duemila
La sua illuminazione per il tappo a vite è arrivata durante un viaggio in Svizzera, mentre per Graziano Prà, altro pioniere della chiusura tecnica, la miccia si è accesa negli Usa nei primi anni 2000. Proprio come Silvio Jermann, che è stato tra i primi a sdoganare il tappo a vite sui vini più importanti a partire dal mitico Vintage Tunina che al tempo divise il pubblico. Nelle nostre degustazioni per la guida abbiamo assaggiato per anni il doppio confronto e puntualmente il Tunina chiuso a vite strappava un centesimo in più. Così a Verona, con un 2013 in forma sontuosa. «Ormai il tabù è sfatato: non è vero che rimangono imbalsamati con il tappo a vite ma evolvono, semplicemente più lentamente. Per noi produttori è la garanzia che tutte le bottiglie siano uguali, omogenee e rispettose del nostro lavoro», racconta Silvio. «A inizio 2000 ero partito con il silicone, ma con il tempo perdeva elasticità. La prima annata con il tappo a vite è stata la 2007, oggi chiudo oltre il 50% della produzione a vite. Tanti ristoranti stellati finalmente li accettano e promuovono».
Nuovi parametri per l'invecchiamento
Uno dei problemi della chiusura tecnica – ammette un fornitore – è ancora la formazione: la vite potrebbe infatti non adattarsi bene se la bottiglia avesse qualche leggera imperfezione, a differenza del tappo che si adatta al collo della bottiglia. Ma la strada sembra spianata e probabilmente dovremo abituarci a rimodulare anche la nostra percezione del vino invecchiato: con il tappo a vite gli intervalli temporali vanno rivisti, così le aspettative. Vini più vecchi sembrano più giovani, un fermo immagine dell’annata più articolato. E che ne sarà di quel suono cosi dolce del sughero quando stappiamo? Un tempo, sostiene Attilio Scienza, il tappo di sughero era pura innovazione, oggi è tradizione. Per il tappo a vite è solo questione di tempo. A Verona non è stato difficile individuare alla cieca il vino tappato a vite nella coppia: al di là del colore, era quello più buono.