
Il suo gramelot franco-calabrese è un marchio di fabbrica, e ha resistito a due decenni abbondanti di Roma, la città che tutti accoglie e corrompe. L’Anthony Genovese che mi trovo davanti, a fine cena, nella sala in cui serve il menù Parallels nel suo ristorante Il Pagliaccio – un vero locale nel locale, non solo un percorso a parte – è molto diverso da quello che avevo conosciuto vent’anni fa, ombroso e diffidente, quello che una volta avevo incontrato da Castroni e che aveva risposto a un mio saluto con uno sgrunt ferino. L’Anthony di oggi ha 57 anni, di cui quaranta trascorsi in cucina, ed è un uomo rasserenato, limpido, che ha voglia di raccontarsi e di fare perfino qualche bilancio. E io ne approfitto.
Ah, per intenderci: nell’intervista interviene ogni tanto anche Matteo Zappile, gran maestro della sala e sodale storico di Anthony, e a un certo punto anche la pastry chef Orsetta Di Francesco.
Anthony Genovese vestito da pagliaccio
«Quarant’anni in cucina sono tanti, ognuno vale per tre, come per i cani».
«No. Una fotografia di quello che sono ora con tutto quello che ho imparato in questo tempo. Non volevo fare i piatti di venti, dieci, cinque anni fa, ma raccontare l’uomo Anthony Genovese a 57 anni dopo quarant’anni in cucina, godermi la libertà assoluta di essere me stesso, di spiegare quello che sento di essere. Me lo dovevo».
«La reazione del pubblico è stata ottima, devo dire che mi ha colpito molto. Ci sono piatti di impronta più borghese, francese, mi viene in mente la triglia, assieme a ispirazioni orientali e all’Italia che c’è dovunque. Molto hanno contribuito anche le foto in cui io e Matteo siamo vestiti io da pagliaccio e lui da domatore».
Anthony Genovese e Matteo Zappile
«Spesso io leggo: c’è noia, c’è noia, c’è noia. Con Matteo abbiamo deciso di fare vedere il fermento che c’è da noi e il piacere che c’è di fare il nostro lavoro ancora assieme dopo tanto tempo. E dopo il piacere di dare ai clienti delle emozioni. Vogliamo far capire che magiare al Pagliaccio è pura gioia, è lasciarsi trasportare per tre ore fuori dal quotidiano. E anche voi giornalisti…».
«Dovete far capire quanto è bello mangiare in un posto come il nostro. Non potete più dire: ho mangiato il piccione, ho mangiato l’anatra. È il momento di descrivere la ristorazione in un modo diverso. Quando leggo che il fine dining è morto mi cascano le braccia, il fine dining è cambiato, voi siete cambiati, noi siamo cambiati, la società è cambiata. Raccontate piuttosto che cosa ci si va a fare in un ristorante per tre ore».
«Anni e anni fa ero più ribelle, volevo essere accettato. All’epoca mi davano dell’indiano per l’uso delle spezie che facevano, dicevano: vai a mangiare da Anthony e puzzerai di curry. Ora il mio rapporto con la critica è ottimo, davvero».
Zappile: «Una volta uno degli ispettori Michelin mi ha detto: “non dovete pensare che noi siamo gourmet, noi siamo delle persone normali. Se un piatto non lo capiamo è tutta tecnica sprecata”».
Genovese: «A volte mi sembra che loro si aspettino da noi il tiramisù e un chitarrista che canta Volare. In Spagna utilizzano altri criteri».
Zappile: «C’è una pioggia di stelle a locali anonimi, mentre se non si è originali, anzi personali, diventa una fotocopia di tutto. Chi viene qui cerca una cucina identitaria, difficile, oggi per fortuna a Roma ognuno di noi ha una sua peculiarità».
«Ero in un piccolo ristorante in Costa Azzurra, eravamo in due e facevamo tutto da noi. Io lavavo, pulivo, facevo le pentole. Il primo stipendio l’ho perso».
«Macché. Ero a Saint Raphael, di notte sul mio Ciao, o forse era un Sì, non funzionava bene, mi sono inchinato per controllare la candela e ho perso la busta con i soldi. Quando sono tornato a casa l’ho detto a mio padre, siamo tornati sul luogo in cui era successo, l’abbiamo cercata ovunque e non l’abbiamo trovata. E mi sono preso l’ultimo schiaffo da papà».
Genovese in cucina
«No, vengo da una famiglia molto povera, che ha lasciato una Calabria molto misera per andare in una Francia molto razzista. E mio padre in Francia ha fatto il muratore».
«Facendo l’alberghiero. Sono uno dei pochi chef che non ha una nonna a cui fare riferimento».
Genovese: «Deve avere una grande passione. Prendi la mia brigata. Tutti sono bravi, ma due o tre hanno la vera passione (indica Orsetta, ndr). Quella che ti porta a reagire allo stress. Stasera il più piccolo della mia brigata, che arriva dall’Alma, è quasi svenuto, è stato un servizio pesante, ha avuto caldo, l’abbiamo trascinato via, era su una sedia tutto bianco, l’ho dovuto scuotere un paio di volte…».
Zappile: «Noi al Pagliaccio abbiamo un salottino del pianto per chi non regge. Una volta un cameriere mi ha portato un certificato medico firmato da uno psichiatra. Un giorno me lo farò incorniciare…».
Genovese clown
Genovese: «Siamo riusciti a costruire una cosa in cui cucina, pasticceria, sala e sommellerie sono un corpo unico, il protagonista non è più Anthony, Matteo, ma un’esperienza».
Di Francesco: «L’obiettivo principale è trovare un equilibrio, un fil rouge che possa legare tutto, non bisogna avere voglia di evidenziarsi rispetto all’altro».
Zappile: «Ogni tavolo ha un racconto personalizzato, uno standard di un servizio di sala, come racconta Veronica i piatti non è come li racconta Francesco, bisogna capire chi si ha di fronte…».
La sala del Pagliaccio
Zappile: «È una bella scommessa vinta, sta andando bene. È un posto totalmente diverso dal resto, anche concettualmente, se non fosse per la ragione sociale sarebbe un ristorante diverso. Penso ai musoni che prima si offendevano perché li mettevamo qui. Allora abbiamo capito che dovevamo vendere un prodotto diverso, che non era un castigo essere qui in questa sala. E ora è un privilegio».
Genovese: «Forse mi tengo solo questo. Follia per follia…».
«Ti rispondo in modo molto genovesiano: è essere me stesso, non ascoltare le tendenze, i maitre-à-penser che credono di dettarti i compiti».
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