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“La pasta non è la portata principale”. Ecco il ritorno al passato dello chef italiano che segue i canoni internazionali

La famiglia Scarello, proprietaria di uno dei ristoranti con più storia in Italia, sta riportando i secondi al centro della scena grazie a un brillante e dinamico servizio di sala

  • 17 Giugno, 2025

Potremmo mai valutare un ristorante per l’amuse-bouche o la piccola pasticceria? Certamente no. Questo perché nella cultura gastronomica che abbiamo ereditato le portate non sono tutte uguali: per ruolo o rilevanza all’interno del menu, entrée e main course ad esempio non possono essere posti sullo stesso piano. E per quanto negli anni alcuni chef si siano sbizzarriti a invertire l’ordine fra primi e secondi o a servire uno spaghetto verso la fine del degustazione, ci sono piatti che aprono il pasto e altri che lo chiudono, e taluni sono secondari, se non propedeutici, rispetto ad altri. Innovazione a parte, la portata principale resta una e una soltanto: il secondo. Un canone indiscusso nella cucina internazionale.

Meno per noi italiani, che facciamo della pasta al pomodoro l’epicentro della nostra cultura. Sembra che sulla nostra tavola non possa mai mancare un primo, anche nell’ambito di un percorso culinario meno routinario; pure nell’alta cucina, dove i tortelli di zucca della famiglia Santini e Riso, oro e zafferano di Marchesi hanno fatto la storia; in tempi più recenti, si considerino i primi dall’impatto scenografico come la cacio e pepe in vescica di Riccardo Camanini. Prospettiva che ci avrebbe allontanato dalla vecchia impostazione di matrice borghese del ristorante, per molto tempo dominante, in cui il momento del main course assumeva tutt’altro spessore e nulla aveva a che vedere con pasta e risotto. Si è andata cioè perdendo la scansione logica appartenente alla struttura del pasto, ciò che distingue un antipasto da un secondo (magari simili per impiattamento e componenti), oppure il predessert dal dessert (a volte l’uno manca di quella pulizia e freschezza che dovrebbe essere preparatoria all’altro). Evoluzione che ha inciso persino sulla presentazione della proposta in sala. Una premessa che segue la riflessione portata avanti da Emanuele Scarello, chef de Agli Amici dal 1887, senza dubbio uno degli esponenti storici della grande tavola italiana.

Emanuele Scarello

Come deve essere il main course?

«Nelle sedi di Udine, Rovigno e Venezia mi sono accorto che eravamo arrivati a servire un secondo come fosse un antipasto. Esistevano troppe analogie. Allora mi sono posto una domanda: che differenza c’è quindi fra starter e main course? Eh, una grossa differenza. Cosa che a volte non si riscontra. Perciò bisogna riportare il main course a quello che è effettivamente: il piatto più importante del menu. E il modo in cui viene servito in sala deve metterlo in evidenza. L’ospite deve percepire che incarna il culmine dell’avventura gastronomica, l’atto conclusivo della proposta salata».
Il cuoco di Godia ci racconta del periodo in cui ha sentito l’esigenza di restituire al secondo lo spessore che lo aveva contraddistinto sin dall’origine, quando le dinamiche di servizio gli conferivano un’immagine differente, quasi “sacra”, non associabile al resto delle portate: «Si tratta di una riflessione che nasce pensando a come era la grande cucina borghese. Non era centrata esclusivamente sul “piatto”, la singola porzione preparata dallo chef, presa in carico dai camerieri. Ruotava intorno alla condivisione della tavola, con tutta la fase di porzionamento dei tagli di carne o pesci interi. Attimi di spartizione che in piccolo mi ricordano quelli di convivialità familiare in cui si affettava lo zampone accompagnato dalle lenticchie. La cucina ha sempre contemplato tale aspetto, che fa parte della nostra storia, ma che invece stavamo perdendo anche per via dell’impostazione culturale legata ai primi. Mentre l’impiattamento del secondo è concettualmente diverso».

Riccardo Celeghin ed Elisa Agarinis

Il servizio da Agli Amici

Scarello allude al fatto che almeno per il main course l’apporto dei camerieri non si possa limitare semplicemente a “portare fuori” il piatto: «Tutto lo staff deve partecipare alla costruzione della portata principale. In un grandissimo ristorante possono cucinare un germano reale, con tanto di maître che con maestria lo seziona davanti ai commensali. Quella parte di pièce bourgeoise che nel servizio di livello non può mancare. Poi ha sempre il suo fascino, identifica quel raccordo fra personale di sala e cuochi. Lavoro che raramente può avvenire sui primi. Per dire, la lasagna non la componi strato per strato in mezzo ai tavoli. Se ne può servire semmai una parte. Diversamente, quando si seziona un animale o si pulisce il pesce ha luogo una specie di messa in scena». In effetti, se a Godia viene porzionato in sala il petto affumicato del galletto, a Rovigno tocca a un rombo “dalla spina argentata” (il secondo si trova in carta alla voce Mimetismo del ROMBO): «Abbiamo fatto un lavoro sulla rivalutazione del main course. Non volevamo che fosse solo un trancio di pesce o un filetto di carne già ultimato al pass. Siamo partiti dall’idea di un pezzo intero, da lavorare per il singolo tavolo e da servire ai rispettivi commensali in tutte le sue parti».

MIMETISMO del rombo, il main course de Agli Amici Rovinj

In un certo senso si guarda alla spettacolarizzazione dell’esperienza culinaria, uno scenario che la clientela insegue spesso lontano da casa. Come dire, mangiare bene non basta: vorremmo essere incantati dall’estetica della performance o di una location, un’atmosfera speciale che trascenda la quotidianità e non sia riproducibile nell’ambito della propria dimensione domestica. Insomma, il ristorante quale luogo di puro intrattenimento oggi affascina più della sua natura di semplice indirizzo gastronomico. Anche se tra guéridon, preparazioni à la presse e flambate pirotecniche davanti al cliente, questa cerimonialità costituisce uno dei tratti classici dell’haute cuisine d’Oltralpe; in termini meno aulici, formali o sensazionali, una prospettiva che a suo modo interessa pure l’oste italiano alle prese con il carrello dei bolliti. Come ammette lo chef, la “rifinitura” di un piatto in sala non costituisce nulla di nuovo. Più che altro un ritorno al passato, rispolverato in chiave contemporanea. Da quanto osservato nei fine dining della famiglia Scarello, Emanuele e la sorella Michela cercano di coinvolgere il personale, anche più giovane, dandogli fiducia e spazio. Il discorso main course deve essere letto anche alla luce di questa impronta gestionale.

Michela Scarello e il personale di sala de Agli Amici dal 1887

Cosa cambia?

La riconfigurazione dell’offerta per concedere una passerella al piatto principale non significa però negare il DNA culinario italiano. Il cuoco riconosce la storia del proprio paese e intende preservare il ruolo dei primi: non c’è un menu degustazione che non li preveda. E alla provocazione che gli abbiamo lanciato — mollando la presa su pasta e risotto in favore dei secondi non rischiamo di omologarci e perdere di identità e competitività internazionale? — Scarello non ha esitato un secondo per ribadire: «No, perché? La “celebrazione” degli uni non esclude gli altri. Noi la pasta la offriamo a tutti in Croazia. Ne diamo una lettura locale, ‘pulita’ (essenziale), con le erbe del mare. Semplicemente, vogliamo che venga mangiata nella maniera giusta: al dente. A me peraltro piace adottare il formato grande. Anzi, a Godia gli gnocchi sono un nostro signature. Davvero, i primi rappresentano qualcosa che possiamo portare in qualsiasi parte del mondo».

 

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