C’è qualcosa di profondamente seducente nel modo in cui la Corea del Sud riesce a mescolare pollo fritto e spiritualità. Passeggiare per le strade di Seoul è come essere in bilico sulla cima di un caleidoscopio e ogni passo porta verso un mondo diverso, lontanissimo dagli altri accanto. Colori, forme e valori mutano da un marciapiede all’altro e immergersi in questa società liquida è come affondare in emozioni mai esplorate e contrastanti.
Succede sempre come sta succedendo adesso: oggi è notte. La pioggia scivola lenta sui vetri dissolvendo i neon in acquerelli fluttuanti e la musica dei grandi magazzini aperti fino a tardi si riversa sulle strade gremite di turisti. Seoul pulsa nel buio come una stella nel cielo notturno e ogni viale profuma di qualcosa che vale la pena inseguire. È un odore grasso, unto da segreti dolciastri e denso di riso glutinoso, capace di rendere famelica anche la persona più irreprensibile: fa venire fame. E succube di questa fame, chiunque qui intorno si aggira tra i vapori dei banchetti di street food, scegliendo quali dolci, quali spiedini, quali frittelle prendere. Tutta cucina tipica, ma basta attraversare la strada.
I fast food coreani brillano come tante piccole sale gioco: i poster sulle vetrine raccontano di sorprese esclusive, così belle da poter essere acquistate anche separate dal resto del menu per bambini. Anzi, non esistono i “menù per bambini”: quei giocattoli lì dentro non sono giocattoli, sono oggetti di design, action figure da collezione. Sono adatti a chiunque le voglia, sono pensate per te, qualunque età tu abbia. E i panini. Sugli schermi appesi in strada scorrono panini gargantueschi, sgargianti, economici. Cosa ti va? Abbiamo quello che ti va: ci sono i fast food americani, quelli cinesi… anche quelli coreani. L’insegna rossa e bianca di Lotteria lampeggia come un invito: è una catena di cinquant’anni ed è come un’ambasciata del fast food coreano. Panini, patatine: con il tempo è diventato più popolare di McDonald’s ma la competizione con gli altri fast food coreani rimane agguerrita. Per chi ama il pollo fritto ci sono BHC Chicken, Nene Chicken, bb.q Chicken; per chi cerca un panino diverso dal solito c’è Mom’s Touch e se vuoi cedere al fascino italiano c’è Banolim Pizza.
Passeggiando per strada i barattoli gonfi di “korean fried chicken” sono nelle mani di chiunque, profumano il cemento, le automobili: stando ai dati di Statistics Korea, ci sono più ristoranti specializzati in pollo fritto in Corea del Sud che ristoranti McDonald’s nel mondo. E poi i fast food di tacos, gyudon, hot dog, i caffè stile Starbucks: ogni giorno, circa 20mila fast food in tutto il Paese, servono vassoi pieni di culture da tutto il mondo. Prezzi bassi, servizio rapido: cosa spinge una nazione dalla cultura antichissima ad abbracciare con tanta naturalezza le logiche del capitalismo occidentale?
Abituata alle invasioni, cresciuta in un miscuglio di culture straniere impegnate a contendersi ogni angolo della sua terra, la Corea del Sud è stata costretta alla curiosità. Prima la Cina, poi il Giappone, poi gli Stati Uniti: a ogni occupazione o protettorato che si susseguiva, i coreani hanno imparato ad assorbire le influenze esterne senza mai rinunciare a sé stessi. È un paese che assorbe, rielabora e restituisce: è come per il “caso della carbonara”. Mi sono stupito quando mi hanno consigliato di provarla – «che qui piace a tutti» – e mi sono stupito ancora di più quando mi sono trovato davanti la bustina di noodles istantanei. I Buldak Carbonara sono pastosi, dolciastri, sanno di latte in polvere e crema di formaggio: vendono tantissimo. Non sanno assolutamente di carbonara, ma neanche gli interessa provarci: la Corea del Sud si apre a tutto il mondo ma lo filtra con il suo gusto.
Quando nel ‘45 gli americani vennero qui a portare i loro toast, la domanda non fu «Sono buoni?» ma «Che cosa possiamo farci noi con questi?» È sulla scia di questa resilienza che ora accanto a Subway, qui a Seoul, c’è Isaac Toast: all’apparenza i grossi sandwich che escono dalla cucina di Isaac sono così americani, così tanto. Ma il mondo si ribalta al primo morso, quando il palato avverte lo zucchero a velo cosparso sulle fette di pane e la salsa yangnyeom spalmata tra frittata e prosciutto. La cucina coreana non è imitazione: è adattamento. Una risposta culturale, veloce quanto la cucina che racconta: la Corea del Sud ha perfezionato l’arte di digerire l’Occidente. Dalla musica pop allo sport – fino a forme più sottili e pervasive come Netflix – la reazione della Corea allo scontro culturale che la attraversa è stata quella di metabolizzare ogni contaminazione, come un organismo che si adatta per sopravvivere. Se la dominazione giapponese del XX secolo ha lasciato ferite profonde, la cicatrice che si è andata a rimarginare su quel sangue portava con sé un’eredità gastronomica silenziosa: nuove tecniche di fermentazione, lo studio del sashimi, l’ossessione per il packaging perfetto. Gli americani hanno portato il pane a fette sì, ma anche il ketchup, le patatine in busta, le lattina di soda. I coreani hanno trasformato tutto questo in simboli della propria rinascita.
In questo momento tra le mani stringo forse l’esempio più iconico di tutto questo: il Bulgogi Burger di Lotteria. Un panino da fast food in tutto e per tutto, tranne che per la classica polpetta di carne: qui il macinato è di manzo coreano imbevuto di una salsa dolce-salata che porta con sé il sapore profondo della soia, dello zucchero bruno, dell’aglio, del sesamo. L’eccentricità è motivata, diventa coerente, consapevole: il Bulgogi Burger arriva al tavolo con la stessa disinvoltura con cui un poeta vagabondo recita versi in metropolitana. Accanto a lui sul menù ci sono lo Shrimp Burger, l’Hanwoo Burger, il Kimchi Burger… ogni panino diventa una dichiarazione di appartenenza, anche quelli che non c’entrano nulla con la cultura di qui, come la serie “Mozzarella”, ispirata al nostro Paese.
Mi guardo intorno, cercando un’età media, ma è come per il discorso delle sorpresine: secondo il Korea Credit Data i fast food e i caffè della Corea del Sud vendono a chiunque, sempre. Se i fast food conquistano soprattutto i 40-50enni, che insieme rappresentano il 53% delle vendite, dall’altra parte i caffè sul modello americano sono invece il regno dei più giovani: i 20-30enni coprono oltre il 50% delle vendite in questi locali. Che sia per un hamburger o un frappuccino, il mercato dei fast food coreani rimane trasversale: in ognuno di questi posti generazioni diverse trovano il loro spazio, ciascuna con le proprie abitudini e preferenze. E anche nei dolci dei caffè simil-Starbucks di qui, come il popolarissimo Paris Baguette, il miracolo culturale si manifesta in tutta la sua poliedricità: croissant all’aglio, pane al tè verde, torte francesi alla patata dolce. Ogni cosa qui è molto più di una colazione: è la Corea che sogna l’Occidente ma si rifiuta di imitarlo alla cieca. Il burro viene addolcito, il prosciutto è marinato, la salsa del french toast, spesso segreta, diventa una miscela di dolcezza e bruciatura, come certe lettere che non abbiamo mai spedito.
Dove finiamo noi e inizia questo paese?
Dentro queste cucine in cui ogni gesto diventa uno sfiorare senza confondersi, il gusto si codifica come linguaggio e resistenza, in un’armonia fragile quanto potente, fatta di contrasti e di strette di mano.
È questa la vera ricchezza della Corea contemporanea, un mosaico di sapori e culture che si arricchiscono a vicenda, colorando anche stanotte, ogni notte.
Niente da mostrare
Reset© Gambero Rosso SPA 2025 – Tutti i diritti riservati
P.lva 06051141007
Codice SDI: RWB54P8
registrazione n. 94/2021 Tribunale di Roma
Modifica impostazioni cookie
Privacy: Responsabile della Protezione dei dati personali – Gambero Rosso S.p.A. – via Ottavio Gasparri 13/17 – 00152, Roma, email: [email protected]
Resta aggiornato sulle novità del mondo dell’enogastronomia! Iscriviti alle newsletter di Gambero Rosso.
© Gambero Rosso SPA – Tutti i diritti riservati.
Made with love by Programmatic Advertising Ltd