Gourmet non è soltanto la parola magica che trasforma qualsiasi piatto – anche il più fetente – in un sublime capolavoro. È, soprattutto, l’incarnazione verbale di un pensiero aristocratico, che separa il cibo dal food, il godimento spicciolo di chi mangia dalla superiore voluttà intellettuale di coloro i quali degustano. E siccome si tratta di una parola magica in uso da tempo, non serve più enunciarla direttamente. Basta pensarla e tradurne l’insegnamento nella pratica.
Massimo Valerio Visintin, il critico mascherato: ogni mese la sua rubrica sul mensile Gambero Rosso
Anno dopo anno, la premessa gourmet è diventata un fondamento implicito, scontato. Siamo rimasti soltanto noi scribacchini a incaponirci dicendo “ristorante gourmet”, “piatto gourmet”, “offerta gourmet”. Gli chef non avvertono più il bisogno di ribadirlo e hanno superato persino la fase di libido linguistica che li induceva a poeticizzare i menu, con profluvio di espressioni spiazzanti e aggettivi possessivi: “ghiribizzo di ricciola stravaccata nel suo fondo”, “capannello di funghi macerati nel loro brodo”, “lungaggine in cottura con il nostro uovo”. Oggi, le carte dei ristoranti d’alto ceto sono elenchi severi, appunti notarili, introdotti, in qualche caso, da titoletti personalizzati. Magari a sfondo familiare come “La lasagna della nonna Aldeide scomposta”, dove non è chiaro se sia scomposta la povera anziana o la sua ricetta.
Inevitabile che, prima o dopo, la perduta esuberanza linguistica trovasse un nuovo sbocco.
Ci riflettevo l’altro giorno, mentre cercavo di indovinare il cibo giusto per la gatta: sorda e cieca, millenaria, secca e vuota come una vecchia poltrona, ma di palato finissimo. Un demone in miniatura che assaggia, riflette e, infine, abbandona con sdegno qualsiasi proposta. Proprio come fanno i critici gastronomici nei film. Mentre è noto che nella realtà, per somma educazione, si abboffano di tutto, purché sia in omaggio.
Cosa dare alla piccola peste? Inforco gli occhiali e leggo nel dettaglio i menu di buste e scatolette.
“Delicato brodo con tonno naturale, guarnito con gamberetti”, “deliziosa zuppa con filetti di pesce finemente accompagnata da un brodo vellutato”, “mousse con tonno e cascata di salsa”.
L’onda lunga dell’alta cucina è arrivata nelle ciotole dei gatti. L’umanizzazione dei nostri felini a scopo commerciale non passa più attraverso codici concreti e popolari. Replica i mirabili nonsense di quei ristoranti per i quali non c’era menu senza lirica, arrosto senza fumo, raffinatezza senza una pennellata di fuffa.
Ma, colpo di scena, la gourmetizzazione è riservata soltanto ai gatti. Per i cani, si va dal “paté rustico” al “pollame con cuore di verdure”, sino al brutale e anonimo “bocconi per cani”.
La morale? Per l’industria degli alimenti per animali, i cani mangiano in trattoria, i gatti degustano dagli stellati.
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