
Di questi giorni la notizia. Enzo Staiola, celebre per aver interpretato il piccolo Bruno nel capolavoro del neorealismo italiano Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, se n’è andato. L’ha fatto in silenzio, come in fondo ha vissuto la sua vita. Ma il suo volto e quei suoi occhi incredibili, restano incisi nella memoria del cinema mondiale.
Staiola era figlio di un fruttarolo alla Garbatella, quartiere operaio dove ha vissuto tutta la sua vita. In una giornata qualunque del dopoguerra De Sica lo nota al banco mentre aiutava il padre. Il regista cercava volti veri, e trovò in quel bambino romano una spontaneità rara, una dolcezza unica, una profondità incredibile. Aveva appena otto anni. De Sica lo volle al fianco di Lamberto Maggiorani per raccontare con straziante semplicità la lotta quotidiana per la sopravvivenza nella Roma del dopoguerra. Ladri di biciclette è universalmente considerato uno dei film più influenti della storia del cinema. È la storia di un padre indigente che cerca la bicicletta che gli viene rubata il primo giorno di lavoro, senza la quale perderà il lavoro. Per tutto il film, accompagnato dal figlio, cercherà quella bicicletta.
Il piccolo Bruno, al fianco del padre disperato, è diventato il simbolo dell’infanzia osservatrice, fragile ma dignitosa, testimone silenziosa della miseria, e delle piccole e grandi difficoltà della vita. Resta memorabile – e non solo per i cinefili – la scena in cui Bruno mangia col padre in una trattoria: un momento sospeso di tenerezza tra un padre preoccupato e un figlio che lo guarda con fiducia assoluta. Un pranzo che non è scontato, mangiare al ristorante infatti era un lusso. Padre e figlio mangiano cibi semplici e poco costosi. Iconica l’inquadratura della mozzarella in carrozza filante che Bruno addenta mentre si guarda alle spalle. Lì una famiglia chiaramente benestante sta consumando un lauto pasto di molte pietanze e vini. A quella tavola c’è un bambino dell’età di Bruno, è circondato da molti piatti, e scambia uno sguardo con il suo giovane coetaneo. Il suo abbigliamento – una giacchetta elegante e una ridicola acconciatura con la “banana” contro l’abito liso e troppo grande per Bruno, insieme al cibo che i due bambini mangiano, diventa specchio della loro situazione economica. Il bambino benestante, con un atteggiamento ostentato e snob, assaggia i vari piatti, ma è circondato da una famiglia visibilmente distante e indifferente nei suoi confronti, nessuno gli parla, nessuno si interessa a lui. Bruno, più povero, invece, consuma il suo pasto frugale parlando con il padre, sorridendo e condividendo il valore di ciascun boccone. Quando il padre fa un commento su quanto ci vorrebbe per permettersi un pasto come quello dei loro vicini di tavolo, il piccolo Bruno lascia cadere a malincuore ma consapevolmente il suo modesto panino nel piatto, desiderando partecipare alle difficoltà del padre e della sua famiglia. «Magna, n’ce pensà», gli dice il padre. Ma il momento magico di leggerezza si è spezzato.
Ladri di biciclette è uscito nel 1948 ed è diventato subito un caposaldo del neorealismo. Staiola, però, non inseguì mai la carriera cinematografica, scomparendo volontariamente dai riflettori. Scelse una vita semplice: studi, lavoro, insegnamento, mantenendo sempre un basso profilo, con una purezza specchio del personaggio che lo rese famoso. Restò sempre fedele alla Garbatella, al suo romanesco, alle sue radici. La sua è una storia romana e universale, fatta di dignità, di scelte semplici, e di un’immagine – quella della manina stretta in quella del padre in una Roma in bianco e nero – che ha commosso generazioni.
Con Staiola se ne va un pezzo di cinema, la sua morte segna la fine di una pagina straordinaria del nostro cinema e della nostra memoria collettiva.
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