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Gli indimenticabili carciofi alla romana di mamma Marina: storia di un rito familiare

Le radici della mia eduzione al gusto ripercorse attraverso ricordi, eredità affettive e i carciofi alla romana, legame culinario tra me e mia madre

  • 27 Maggio, 2025

Il mio lavoro è un paradosso. Inappetente fino ai 10 anni, oggi degusto decine di prodotti a botta: oltre 70 tipologie di tè, 65 mozzarelle, 54 salumi, oltre 60 acque minerali, quasi 50 torroni… L’educazione al gusto è cominciata non attraverso mia madre, Marina, ma tramite zia Filippa, la sorella di papà, che è stata la mia tata fino alle elementari e che cucinava divinamente: i suoi piatti erano una preghiera. Ho ancora il ricordo dei profumi delle cose buone che preparava e che ancora oggi ricerco nelle mie maratone degustative. Ma questa è un’altra storia.

Madre e lavoratrice negli anni Cinquanta-Settanta

Mia madre, del 1922, dal Dopoguerra ha sempre lavorato fino agli anni Settanta. Era lavoratrice, madre, moglie. Un po’ tante cose, troppe in un’epoca – erano gli anni ’60 – in cui molte case non avevano ancora la lavatrice (i panni si lavavano nelle fontane condominiali), il frigorifero, la lavastoviglie, la scopa elettrica, lo scaldabagno. Lavorava tutto il giorno fuori casa e la sera aveva giusto il tempo di mettere insieme qualcosa per cena, una cena semplice che nutrisse. Una stakanovista come lei non aveva tempo di stare ore ai fornelli a spadellare. Né ci sarebbe stata avendone il tempo, preferiva piuttosto dipingere, costruire una cornice, restaurare un mobile, cambiare la carta da parati. Fare una lasagna con tutti i crismi o un pan di Spagna non era in cima ai suoi pensieri.

Mamma dopo il ’45

Mamma dopo il ’45

I carciofi alla romana di mamma

Però sapeva fare un piatto, uno solo, e lo faceva benissimo: i carciofi alla romana. I suoi carciofi dicevano molto del suo carattere. La ricordo ancora con l’espressione concentrata, la stessa che aveva quando lavorava (anche a casa il fine settimana) davanti al tavolo luminoso, dando il colore ai cartelloni pubblicitari dei film dell’epoca: Chi ha paura di Virginia Woolf e Cleopatra con Elizabeth Taylor e Richard Burton, i western con John Wayne e Yul Brynner…

Ricordo la fronte tesa, le mani forti e veloci che girano e rigirano i carciofi, prima togliendo le foglie più grandi e coriacee alla base, poi tornendoli intorno con un coltello affilato che ogni tanto arrotava con una cote, fino a trasformarli in cuori di carciofo. Li salava all’esterno, li condiva allargando al centro i fiori capati e introducendo nel cuore un trito di prezzemolo, aglio e mentuccia, poi li metteva in una pentola a pressione che non funzionava più a pressione ma come semplice tegame. Un bel giro d’olio, niente acqua, che eventualmente aggiungeva in cottura se ce n’era bisogno, coperchio aderente alla pentola e si partiva con la cottura a fuoco basso, rosolandoli fino a che non diventavano quasi ambrati. I suoi carciofi erano come lei: rustici, saporiti e con un sottofondo deliziosamente dolce.

Da sinistra: mamma, io, mia sorella Laura e un amico di papà

Da sinistra: mamma, io, mia sorella Laura e un amico di papà

Li preparava da dicembre fino ad aprile/inizio maggio. Non mancavano mai in pranzi e cene delle feste di fine anno, a Pasqua, 25 aprile e primo maggio. Era un rito, un piatto che la famiglia riunita – nei giorni di festa con nonna Valeria e allargata a zii e nipoti – si aspettava. Una montagna di carciofi, cotti nella pentola a pressione “sfiatata” e in altri tegami, che occupavano tutti e quattro i fuochi.

L’eredità di famiglia: passione e know-how

Dei carciofi alla romana ho ereditato l’expertice, la dedizione, la tradizione di famiglia, il rito. Un passaggio del testimone che mi sono presa volentieri. Li faccio a Natale, Pasqua e spesso per reunion di parenti stretti e amici tra inverno e inizio primavera. Li tornisco a dovere trasformandoli in rustici ranuncoli verdi e muscolosi: fondamentale il coltello spelucchino ben affilato.

A differenza di mia madre, indosso i guanti per non annerire le mani, non cerco il risparmio ma la qualità del carciofo: solo e unicamente quelli romaneschi, grandi, “a palla” e con le foglie carnose, che noi romani chiamiamo mammole, i napoletani mammarelle, ma che sono lo stesso delizioso ortaggio (per la cronaca, entrambi Ipg: Carciofo Romanesco del Lazio e Carciofo di Paestum). Altrimenti desisto, come diceva Totò. Li scelgo freschi ancora chiusi a bocciolo e turgidi al tatto. L’aglio, invece di tritarlo, lo metto intero nel ciuffo di erbe sminuzzate al centro del carciofo, nel caso a qualcuno non piacesse. Anche l’olio non è scelto a caso: un extravergine fruttato medio, non troppo amaro e piccante, e ovviamente privo di difetti.

Carciofi alla romana

La vecchia pentola a pressione “sfiatata”

I carciofi li preparo in tanti altri modi: crudi in insalata, assoluti o con la bottarga; cotti a spicchi con le seppie o con le patate; l’amata vignarola, con piselli, fave e cipollotto; cotti in forno interi con mollica di pane, aglio, prezzemolo e acciuga tritati, con un dito d’acqua nel grande tegame, da mangiare sfogliandoli in bocca; tagliati in grandi spicchi, scottati in acqua e aceto pochi minuti e conditi con olio evo, sale, pepe e uno spicchio d’aglio. Ma il mio cavallo di battaglia sono i carciofi alla romana, cotti nella “sfiatata” e indistruttibile pentola di mamma, ereditata anche quella, che custodisco come un gioiello di famiglia.

Nella foto di apertura: in basso da sinistra io, mamma e mia sorella Laura; in alto da sinistra zia Filippa, zia Grazia, nonna Rosa, la cugina Rosetta  

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